INFERNO, CANTO I

 

 

Testo

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.                                           3

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!                                      6

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.                                9

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.                                         12

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,                            15

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.                            18

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.                               21

E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,                            24

così l’animo mio ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.                             27

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo era sempre ’l più basso.                 30

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;                                     33

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.                                   36

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino                            39

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle                                        42

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.                                 45

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.                            48

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,                                     51

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.                             54

E qual è quei che volentieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti i suoi pensier piange e s’attrista,               57

tal mi fece la bestia sanza pace,
che venendomi ’ncontro a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.                                       60

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi agli occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.                                  63

Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me,» gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!»                   66

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.                                         69

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto 
al tempo de li dei falsi e bugiardi.                                  72

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia 
poi che il superbo Ilïón fu combusto.                             75

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?»                          78

«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’io lui con vergognosa fonte.                              81

«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande onore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.                              84

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.                                 87

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».                           90

«A te convien tenere altro viaggio,»
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;                        93

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;                              96

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.                            99

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.                                102

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.                               105

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurìalo e Turno e Niso di ferute.                                    108

Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde invidia prima dipartilla.                                      111

Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, ed io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno,                                    114

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;                          117

e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.                                   120

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò di me più degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;                                   123

ché quello imperador che lassù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.                  126

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio;
oh felice colui cu’ ivi elegge!»                                        129

E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch’io fugga questo male e peggio,                     132

che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color che tu fai cotanto mesti».

Allor si mosse, e io li tenni dietro.                                 136


Parafrasi

A metà del percorso della vita umana (all'età di 35 anni), mi ritrovai per una oscura foresta, poiché avevo smarrito la giusta strada.

Ahimè, è difficile descrivere com'era quella foresta, selvaggia, inestricabile e tremenda, tale che al solo pensiero fa tornare la paura.

È così spaventosa che la morte lo è poco di più: ma per descrivere il bene che vi trovai dentro, dirò quali altre cose ho visto in essa.

Non sono in grado di spiegare come vi sia entrato, tanto ero pieno di sonno nel momento in cui lasciai la giusta strada.

Ma dopo che fui arrivato ai piedi di un colle, là dove finiva quella valle che mi aveva rattristato il cuore di paura,

 

alzai lo sguardo e vidi la sua vetta già illuminata dai raggi del sole, che conduce ogni uomo sulla giusta strada.

Allora si placò un poco la paura che avevo avuto nel profondo del cuore, quella notte che trascorsi con tanta angoscia.

E come il naufrago che col respiro affannoso, gettato dal mare sulla riva, si volta e guarda alle acque pericolose da cui è scampato,

 

così il mio animo, che ancora era in fuga, si voltò indietro ad osservare il passaggio che non lasciò mai passar vivo nessun uomo.

Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco, ripresi a camminare lungo il pendio deserto del colle, in modo tale che il piede più saldo era sempre quello più basso.

Ed ecco che apparve, quasi all'inizio della salita, una lonza snella e molto agile, ricoperta di pelo maculato;

 

 

e non si allontava di fronte a me, anzi, impediva a tal punto il mio cammino che io pensai più volte di tornare indietro.

Erano le prime ore del mattino, e il sole stava sorgendo insieme a quella costellazione (l'Ariete) che era con lui il giorno della Creazione, quando l'amore divino

 

mosse per la prima volta quelle belle cose; così l'ora del giorno e la stagione primaverile mi davano buoni motivi per sperare bene a proposito di quella belva dalla pelle chiazzata;

ma non al punto che non mi desse paura la vista, che mi apparve subito dopo, di un leone.

 

Questi sembrava venire contro di me, con la testa alta e con fame rabbiosa, al punto che persino l'aria sembrava tremare.

Ed ecco apparire una lupa, che nella sua magrezza sembra piena di tutti i desideri e spinse molte persone a vivere miseramente;

 

questa mi procurò una tale angoscia, col terrore che mi ispirava il suo aspetto, che persi la speranza di raggiungere la sommità del colle.

E come colui che acquista volentieri, e poi arriva il tempo in cui perde ogni cosa, per cui piange e si rattrista in ogni pensiero,

 

così mi rese la belva senza pace, che venendo contro di me mi sospingeva poco a poco verso il basso, dove non c'era il sole.

Mentre io scivolavo a valle, verso la foresta, apparve davanti ai miei occhi qualcuno che non riuscivo a vedere bene per la penombra.

Quando vidi costui nel luogo deserto, gli gridai: «Abbi pietà di me, chiunque tu sia, un'anima o un uomo in carne e ossa!»

Mi rispose: «No, non sono un uomo, lo sono già stato, e i miei genitori furono della Lombardia, entrambi nativi di Mantova.

Nacqui sotto il governo di Giulio Cesare, anche se negli ultimi anni, e vissi a Roma sotto il governo del buon imperatore Augusto, al tempo degli dei pagani.

Fui poeta, e cantai di quel giusto figlio di Anchise (Enea) che fuggì da Troia dopo che il superbo Ilio (Troia) fu bruciato.

Ma tu, perché ritorni al male della foresta? Perché non scali il colle gioioso, che è principio e causa di ogni felicità?»


«Allora tu sei quel Virgilio e quella sorgente che spande un così largo fiume di parole?» gli risposi vergognandomi.

«O tu che sei luce e guida degli altri poeti, mi siano di aiuto il lungo impegno e il grande amore che mi hanno spinto a leggere la tua opera!

Tu sei il mio maestro e il mio modello; tu sei il solo da cui io trassi il bello stile che mi ha reso celebre.


Vedi la belva che mi ha fatto voltare; aiutami da lei, famoso sapiente, poiché essa fa tremare ogni goccia del mio sangue».

«Tu devi compiere un altro viaggio,» mi rispose dopo avermi visto piangere, «se vuoi salvarti da questo luogo selvaggio.

Infatti, la belva che ti fa urlare non lascia passare nessuno per la sua strada, ma lo impedisce al punto di ucciderlo.

E ha un'indole così malvagia e malefica che non può mai soddisfare la sua bramosia, e dopo ogni pasto ha più fame di prima.

Sono molti gli animali a cui si accoppia, e saranno sempre di più, finché arriverà il cane da caccia (veltro) che la farà morire con dolore.

Costui non baderà alle ricchezze materiali, ma solo a quelle spirituali e la sua nascita avverrà tra feltro e feltro.


Sarà la salvezza di quell'umile Italia, per cui morirono in battaglia Eurialo e Niso, Turno, la vergine Camilla.


Costui le darà la caccia per ogni città, finché l'avrà rimessa nell'Inferno da dove l'invidia (del demonio) la fece uscire per la prima volta.

Perciò io penso e giudico per il tuo bene che tu debba seguirmi, e io ti farò da guida; e ti porterò via di qui per guidarti in un luogo dell'Oltretomba,

 

dove udirai le grida disperate e vedrai le antiche anime dei dannati, ciascuno dei quali invoca la morte definitiva.


E poi vedrai coloro che sono contenti di subire pene (i penintenti del Purgatorio), perché sperano un giorno di raggiungere i beati del Paradiso.

E se poi tu vorrai salire a visitare questi ultimi, allora ci sarà un'anima più degna di me per farti da guida: quando me ne andrò, ti lascerò con lei.

Infatti, quell'imperatore (Dio) che regna lassù, non vuole che io entri nella sua città, in quanto fui ribelle alla sua legge (fui pagano).

Dio ha autorirà in tutto l'Universo e in Paradiso governa; qui c'è la sua città e il suo altro trono; oh, felice colui che sceglie per risiedere in quel luogo!»

E io gli dissi: «Poeta, in nome di quel Dio che non hai conosciuto e affinché io fugga questo male e altri peggiori,

 

ti chiedo ti condurmi là dove hai detto, così che io veda la porta di San Pietro e coloro che descrivi tanto miseri».


Allora si mise in cammino, e io lo seguii.



Inferno, Canto I

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Dante e le tre fiere (G. Stradano, 1587)

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura,
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!



Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza
e molte genti fé già viver grame...



"A te convien tenere altro viaggio,"
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
"se vuoi campar d'esto loco selvaggio..."


Argomento del Canto

Dante si smarrisce nella selva oscura. Incontra le tre fiere: lonzaleonelupa. Viene soccorso da Virgilio, che lo guiderà in un viaggio attraverso Inferno e Purgatorio, mentre Beatrice lo guiderà in Paradiso. Profezia del veltro.
È la notte tra giovedì 7 aprile (o 24 marzo) e venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.

Dante si smarrisce nella selva (1-30)

La notte del 7 aprile (o 24 marzo) dell’anno 1300, dunque a trentacinque anni di età, Dante si smarrisce in una selva oscura e intricata, impossibile da descrivere tanto è angosciosa. Lui stesso non sa dire come c’è finito, poiché era pieno di sonno quando ha perso la giusta strada: a un tratto però, mentre sta albeggiando, si ritrova ai piedi di un colle, dalla cui vetta vede spuntare i primi raggi del sole. Questo, oltre al fatto che è primavera, gli ridà speranza e lo spinge a tentare la scalata del colle, dopo essersi riposato per qualche istante e aver ripensato al pericolo appena corso (come un naufrago che guarda le acque in tempesta dalle quali è appena scampato). Il poeta inizia quindi a salire la china del colle, ma con grande fatica e incertezza.

Compaiono le tre fiere (31-60)

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W. Blake, Dante nella selva

Mentre sta salendo il colle, gli appare improvvisamente una lonza dal pelo maculato, assai agile e snella, che lo spinge più volte a tornare indietro. All’inizio l’ora del mattino e la stagione mite gli danno speranza di poterne avere ragione, ma subito dopo compare un leone, che gli viene incontro con fame rabbiosa e sembra far tremare l’aria, e una lupa famelica, tanto magra da sembrare carica di ogni bramosia. Quest’ultima incute molta paura in Dante, che perde ogni conforto e lentamente scende verso il basso, nella zona non illuminata dal sole.

Presentazione di Virgilio (61-90)
Dante sta tornando verso la selva, quando intravede una figura nella penombra, appena visibile nella poca luce dell’alba. Intimorito, supplica lo sconosciuto di avere pietà di lui e gli chiede se sia un uomo in carne ed ossa oppure l’anima di un defunto. L’altro risponde di non essere più un uomo in vita, ma di avere avuto i genitori lombardi e di essere originario di 
Mantova. Si presenta come Virgilio, il poeta latino vissuto al tempo di Cesare e Augusto, ovvero durante il paganesimo, e che ha cantato le gesta di Enea nel poema a lui dedicato. Virgilio rimprovera Dante perché sta scivolando verso il male della selva, mentre dovrebbe scalare il colle che è principio di felicità. Dante risponde a sua volta con ammirazione, dicendo a Virgilio che lui è il più grande poeta mai vissuto e dichiarando che è il suo maestro e modello di stile poetico. Si giustifica indicando la lupa come la bestia selvaggia che gli sbarra la strada, pregando Virgilio di aiutarlo a superarla.


Profezia del veltro (91-111)

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G. Doré, Dante e la lonza

Virgilio riprende la parola spiegando a Dante che, se vuole salvarsi la vita, dovrà intraprendere un altro viaggio. Infatti la lupa è animale particolarmente pericoloso e malefico, incapace di soddisfare la propria fame, che uccide chiunque incontri. Virgilio profetizza poi la venuta di un «veltro», un cane da caccia che ucciderà la lupa con molto dolore e la ricaccerà nell’Inferno da dove è uscita. Costui non sarà interessato alle ricchezze materiali ma ai beni spirituali, e la sua patria non sarà nessuna città in particolare. Egli sarà la salvezza dell’Italia, per la quale già altri personaggi hanno dato la vita, come i troiani Eurialo e Niso, la regina dei Volsci Camilla, il re dei Rutuli Turno, tutti cantati dallo stesso Virgilio nell’Eneide.


Il viaggio di Dante (112-136)

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P. Della Quercia, Dante e Virgilio

Virgilio conclude dicendo a Dante che dovrà seguirlo in un viaggio che lo condurrà nei tre regni dell’Oltretomba: dapprima lo condurrà attraverso l’Inferno, dove sentirà le grida disperate dei dannati; poi lo guiderà nel Purgatorio, dove vedrà i penitenti che sono contenti di espiare le loro colpe per essere ammessi in Paradiso. Qui, però, non sarà Virgilio a fargli da guida: egli non ha creduto nel Cristianesimo, quindi Dio non può ammetterlo nel regno dei Cieli. Sarà un’altra anima, più degna di lui, a guidare Dante in Paradiso, ovvero Beatrice. Dante risponde a Virgilio pregandolo di fargli da guida in questo viaggio, poiché è ansioso di vedere la porta di san Pietro e le pene dei dannati. Virgilio inizia a muoversi e Dante lo segue.


Interpretazione complessiva

Il canto I dell’Inferno è di introduzione all’intero poema, presenta quindi la situazione iniziale e spiega le ragioni del viaggio allegorico: Dante vi compare nella duplice veste di personaggio reale, che in un determinato momento storico si smarrisce in una selva (a metà della sua vita, quindi nell'anno 1300 quando stava per compiere 35 anni), e in quella di ogni uomo che in questa vita è chiamato a compiere un percorso di redenzione e purificazione morale per liberarsi dal peccato e guadagnare la beatitudine. Sul piano allegorico, dunque, la selva rappresenta proprio il peccato (essa è infatti descritta come selvaggia e aspra e forte, spaventosa al solo ricordo e poco meno amara della morte stessa), mentre su quello letterale è un luogo in cui chi compie un viaggio rischia realisticamente di smarrirsi per essere uscito dalla diritta via, per cui i lettori del tempo di Dante potevano trovare familiare un paesaggio simile (all'epoca le zone boscose erano assai estese e selvatiche, come per esempio in Maremma: cfr. Inf.XIII, 7-9). Altrettanto realistici gli altri elementi del paesaggio simbolico, a cominciare dal colle che allegoricamente raffigura la via alla felicità terrena, cioè al possesso delle virtù cardinali (fortezza, temperanza, prudenza e giustizia) per le quali la ragione umana è sufficiente, e che Dante tenta inutilmente di scalare vedendo sorgere il sole dietro la sua vetta (esso rappresenta la via verso la salvezza, oltre all'ovvia considerazione che il nuovo giorno dissipa le paure della notte e ridona al poeta nuova speranza). Le tre fiere che sbarrano il passo al poeta e lo ricacciano verso la selva sono invece le tre principali disposizioni peccaminose: la lonza è la lussuria, il leone è la superbia, la lupa è l’avarizia-cupidigia, secondo una tradizione già attestata dai commentatori medievali, e anch'esse ovviamente rappresentano tre animali selvaggi che non erano certo impossibili da incontrare in un effettivo viaggio attraverso una foresta (tranne naturalmente il leone, ma nulla conferma che il viaggio dantesco avvenga in Italia e d'altronde vari interpreti hanno ipotizzato che questi luoghi si trovino in realtà nei pressi di Gerusalemme, sotto la quale si spalanca la voragine infernale). Più pericolosa è la lupa-avarizia, radice di tutti i mali e per Dante causa prima del disordine politico e morale che regnava in Italia all’inizio del Trecento, di cui è simbolo del resto anche la selva, mentre va ricordato che in molti passi del poema egli si scaglia con forza contro la corruzione del mondo politico ed ecclesiastico del suo tempo, causata principalmente proprio dall'avidità di denaro. La lupa si rivela un ostacolo insuperabile e Dante lentamente scivola nuovamente verso la selva, cioè il peccato.
La seconda parte del Canto vede come protagonista Virgilio, che sarà la prima guida di Dante nel viaggio ultraterreno e che è allegoria della ragione umana dei filosofi antichi, guida sufficiente a condurre l’uomo al pieno possesso delle virtù cardinali: egli giunge in soccorso del poeta in modo inaspettato, come un'apparizione spettrale, tanto che Dante gli chiede timoroso se sia 
ombra od omo certo. La risposta del poeta latino è una vera e propria prosopopea, un'elegante auto-presentazione in cui Virgilio non fa direttamente il proprio nome (sarà Dante a citarlo al termine delle sue parole) e si manifesta come l'autore dell'Eneide, il poema che era considerato il capolavoro della letteratura latina e il cui protagonista, Enea, è centrale nella tradizione classico-cristiana, in quanto fondatore della stirpe romana e, indirettamente, di quellaRoma che sarà centro dell'Impero e della Chiesa. Virgilio rimprovera Dante del fatto che non sale il dilettoso monte  che è principio di ogni felicità e il poeta fiorentino risponde indicando Virgilio come il suo maestro, colui da cui ha tratto l'alto stile tragico che gli ha dato la fama, invocando poi il suo aiuto contro la lupa-avarizia che lo riempie di terrore e costituisce uno sbarramento insuperabile: la successiva risposta di Virgilio si divide in due parti, la prima delle quali dedicata alla profezia del «veltro» che ricaccerà la lupa nell'Inferno da dove è uscita (per le molte interpretazioni di questo personaggio si veda oltre), la seconda al viaggio nell'Oltretomba che Dante dovrà affrontare se vuole scampare da questo loco selvaggio, e in cui sotto la sua guida visiterà Inferno e Purgatorio, mentre se vorrà visitare anche il Paradiso dovrà attendere la guida di Beatrice, in quanto Virgilio è pagano e non è quindi ammesso nel regno di quel Dio che non ha conosciuto. Allegoricamente Beatrice raffigura la grazia santificante e la teologia rivelata, che sola può portare l'uomo alla salvezza, mentre è affermata fin dall'inizio l'insufficienza della ragione naturale, che è in grado di condurre l'uomo al possesso delle virtù cardinali e a una condotta onesta, ma non di arrivare alla beatitudine eterna: è questa l'ossatura allegorica dell'intero poema e la cosa diverrà chiara già dal Canto II, in cui Virgilio rievocherà l'incontro con Beatrice nel Limbo e spiegherà che il viaggio di Dante è voluto da Dio, dunque non è folle  in quanto non affrontato col solo ausilio della ragione dei filosofi che Virgilio rappresenta. La scelta di questo personaggio come guida nella prima parte del viaggio è stata molto discussa, in quanto Dante avrebbe potuto scegliere un filosofo come Aristotele o un personaggio storico come Catone Uticense, ma Virgilio nel Medioevo era ritenuto un pensatore al pari degli altri grandi filosofi antichi, inoltre si riteneva che avesse intravisto alcune verità del Cristianesimo e le avesse preannunciate nelle sue opere (specie nella famosa Egloga IV: cfr. Purg.XXII, in cui Staziodichiara di essere diventato cristiano grazie alla lettura di quei versi); egli era anche il principale scrittore dell'età di Augusto, sotto il cui Impero il mondo aveva conosciuto pace e giustizia, indispensabili secondo il pensiero medievale affinché potesse diffondersi il Cristianesimo, per cui l'autore dell'Eneide  era in realtà una scelta quasi obbligata come maestro e guida di Dante nel viaggio attraverso i primi due regni ultraterreni. È interessante inoltre osservare che dopo questo primo incontro fra discepolo e maestro si creerà un rapporto di reciproco intenso affetto, per cui Virgilio accudirà Dante come un figlio e questi ricambierà le cure con profondo rispetto e deferenza, fino al momento della separazione in cui Dante si abbandonerà a un pianto disperato (Purg., XXX, 40 ss.). Il Canto si chiude con Dante che, pieno di speranza e di buoni propositi, si accinge a seguire la sua guida per giungere nei luoghi che gli ha preannunciato, salvo poi (all'inizio del Canto seguente) venire assalito da dubbi e timori, che Virgilio fugherà raccontando del suo incontro con Beatrice.

La profezia del veltro

È una delle più note e oscure della Commedia, evocata da Virgilio che preannuncia la venuta di questo misterioso personaggio destinato a cacciare e uccidere la lupa-avarizia dall’Italia e dal mondo (il veltro era propriamente un cane usato durante le battute di caccia, dunque perfettamente in grado di mettersi sulle tracce di un animale selvaggio: cfr. Inf., XIII, 126, come veltri ch'uscisser di catena). Su di lui sono state avanzate le più disparate ipotesi, che però, tralasciando le più fantasiose, si riducono a un papa (forse un francescano: il feltro potrebbe alludere al panno del suo saio), a un imperatore (Arrigo VII di Lussemburgo?), a un signore italiano (Cangrande della Scala?). La questione è complicata anche dall'incerta cronologia della composizione di questo Canto, per cui si obietta che se Dante scrisse questi versi intorno al 1307 (è questa l'ipotesi più accreditata, mentre altri pensano addirittura che abbia iniziato la Commedia  prima dell'esilio) era in effetti troppo presto perché potesse pensare ad Arrigo VII, che scese in Italia solo nel 1310-1313, ma anche a Cangrande, che all'epoca aveva appena sedici anni e che il poeta incontrò molto più tardi. Del resto è innegabile che l'elogio a Cangrande messo in bocca all'avo Cacciaguida in Par.,XVII, 76 ss. presenti molti punti di contatto con questa profezia e fa propendere per tale identificazione, ma occorrerebbe pensare che Dante abbia rimaneggiato il Canto in un secondo momento e di questo non c'è alcuna conferma diretta nella tradizione manoscritta. Non è poi da escludere che il veltro non fosse da identificare con un personaggio in particolare e che la profezia sia volutamente ambigua proprio per essere indeterminata, caso non certo unico nel poema dantesco; chiunque fosse il veltro, Dante si aspettava da lui un profondo rinnovamento sociale e politico in grado di riportare la giustizia troppo spesso calpestata dagli ecclesiastici corrotti e dagli uomini politici, che è poi la situazione di degrado morale e disonestà che il poeta denuncia a più riprese nella Commedia, sempre con parole di ferma condanna. Tale profezia si ricollega forse a quella del «DXV» contenuta nel Canto XXXIII del Purgatorio, dove si dice che un «messo di Dio» ucciderà la prostituta che simboleggia la Chiesa compromessa con la monarchia di Francia: molti interpreti hanno sostenuto l'identificazione di questo «DXV» con Arrigo VII e con lo stesso veltro, per quanto di ciò non vi sia alcuna prova certa, ma è evidente che entrambe le profezie hanno in comune il carattere oscuro ed enigmatico e preannunciano quella palingenesi della società che Dante si attendeva, e nella quale manifesta una fede incrollabile in più di un passo del poema.

Note e passi controversi

Il v. 1 è stato interpretato da alcuni come in quella metà della vita che si trascorre domendo (Dante racconterebbe una visione avuta in sogno), ma l'autore si rifà quasi certamente a un passo biblico (Isaia, 38, 10) dove si dice in dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi, cioè «andrò presso la porta dell'Inferno a metà dei miei giorni». Dante stesso, in Conv., IV, 23 descrive la vita umana come un arco che inizia a declinare dopo i 35 anni di età, senza contare che descrive il suo viaggio come realmente avvenuto (egli è andato sensibilimentenell'Aldilà). In Ps., LXXXIX, 10 si legge inoltre che dies annorum nostrorum... septuaginta anni («la vita dell'uomo dura settant'anni»), per cui è evidente che Dante intende collocare il suo viaggio nella primavera dell'anno 1300.
Al v. 5 
selva selvaggia  è una paronomasia di forte sapore guittoniano.
Il 
sonno  citato al v. 11 è quello della ragione che conduce al peccato, come spesso indicato nelle Scritture.
Il 
pianeta  del v. 17 è ovviamente il Sole.
Nel v. 27 il 
che può avere valore di soggetto o di compl. oggetto, quindi il senso può essere la selva, che non lasciò vivere nessuno oppure la selva, che nessuna persona vivente poté abbandonare. Pare più probabile la prima interpretazione, nel senso che il peccato provoca la morte dell'anima portando alla dannazione.
Il v. 30 è stato variamente interpretato, ma forse Dante indica semplicemente che, tentando di scalare il colle, il piede più basso è quello più saldo e quindi l'ascesa è alquanto incerta. Altri pensano che il piede più basso sia il sinistro, simbolo degli appetiti materiali che frenano Dante sulla strada della salvezza (le due ipotesi non si escludono a vicenda).
I vv. 37-40 indicano che è l'alba e il Sole è in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quella che era con lui al momento della Creazione fissata tradizionalmente in primavera: l'equinozio primaverile era considerato momento favorevole, quindi anche per questa ragione Dante si riconforta (l'indicazione permette inoltre di collocare il tempo dell'azione tra marzo e aprile del 1300, come successivamente verrà meglio precisato).
Le rime ai vv. 44, 46, 48 (
-esse / -isse) sono siciliane ed è dunque da respingere la lezione venesse  di alcuni mss.
La similitudine ai vv. 55-57 è di solito riferita all'avaro, ma alcuni hanno pensato al giocatore, che si rattrista quando perde tutti i suoi guadagni.
Il v. 63 (
chi per lungo silenzio parea fioco) può significare qualcuno, che a causa del lungo silenzio della luce (penombra) si scorgeva a malapena, oppure qualcuno, che a causa di un lungo silenzio (poetico) non aveva più voce. Questa seconda ipotesi alluderebbe al fatto che, dopo Virgilio, nessuno scrisse un poema paragonabile all'Eneide, quindi il poeta latino aveva perso autorevolezza. Le due interpretazioni possono coesistere.
Ai vv. 68-69 Virgilio si presenta come originario di 
Mantova (era nativo di Andes, un piccolo villaggio vicino alla città sul Mincio) e indica i genitori come lombardi, con un anacronismo in quanto il termine Lombardia (che ai tempi di Dante alludeva a tutta l'italia settentrionale) non esisteva ai tempi dell'antica Roma.
I vv. 73-75 alludono in modo perifrastico ad Enea, figlio di 
Anchise e protagonista dell'EneideIlion  è l'altro nome di Troia.
Noia  gioia (vv. 76, 78) derivano dal provenzale e hanno significato assai più ampio che nella lingua moderna: il primo indica la piena e perfetta felicità, il secondo l'angoscia e la pena del peccato.
Al v. 84 il 
volume  è sicuramente l'Eneide. Lo bello stilo  che ha fatto onore a Dante è lo stile alto e tragico di quel poema, che Dante ha già usato nelle canzoni dottrinali composte in precedenza e destinate ad essere commentate nel Convivio.
Gli 
animali  (v. 100) cui è detta accoppiarsi la lupa-avarizia sono gli uomini e non i vizi, come fu inteso da alcuni.
Il 
peltro (v. 103) era una lega di piombo e stagno usata per forgiare le monete, quindi Virgilio dice che il veltro non sarà avido né di terre né di ricchezze.
Sapienza, amore e virtute (v. 104) indicano le tre Persone della Trinità, ovvero Figlio, Spirito Santo e Padre.
Il v. 105 (
e sua nazion sarà tra feltro e feltro), riferito al veltro, è stato variamente interpretato: può riferirsi al feltro delle bandiere (la sua origine non sarà da una città in particolare), al feltro che foderava l'interno delle urne dov'erano votati i magistrati comunali (un podestà?), al panno del saio francescano (un papa di quell'Ordine?), a Feltre e Montefeltro (Cangrande della Scala, il cui territorio era compreso fra quelle città).
Ai vv. 107-108 Virgilio ricorda alcuni personaggi dell'
EneideCamilla, la regina dei Volsci alleata di Turno e uccisa dall'etrusco Arunte (XI, 758 ss.); Eurialo e Niso, i due giovani guerrieri troiani uccisi dai Latini mentre cercano di portare un messaggio ad Enea (IX, 177 ss.); lo stesso Turno re dei Rutuli, principale nemico di Enea e da lui ucciso nel finale del poema (XII, 936 ss.). Tutti sono ricordati come valorosi soldati caduti per il bene dell'Italia e, curiosamente, Turno viene citato tra i due amici Eurialo e Niso, mentre è interessante notare che due di loro sono troiani, gli altri due nemici di Enea (evidentemente tutti hanno partecipato alla costruzione della «nazione» italica, anche se schierati su fronti opposti).
Nel v. 117 il verbo 
grida può avere il senso di invoca, oppure di impreca contro: nel primo caso, più probabile, significa che ogni dannato invoca la seconda morte, il definitivo annichilimento dell'anima; nel secondo, vuol dire che ogni dannato impreca contro la seconda morte, intesa come la dannazione.
Il v. 127 crea un'analogia tra Dio e l'Imperatore sulla Terra, che 
impera (cioè estende la sua autorità) in ogni luogo ma regge (governa)propriamente solo nel proprio territorio: Dio ha autorità su tutto l'Universo e governa solo nell'Empireo.
La 
porta di san Pietro (v. 134) è stata intesa come la porta del Paradiso, ma secondo altri è quella del Purgatorio descritta in Purg.IX e presidiata dall'angelo guardiano che è detto vicario di Pietro.