INFERNO CANTO III

Testo

"Per me si va ne la città dolente, 
per me si va ne l’etterno dolore, 
per me si va tra la perduta gente.                                    3

Giustizia mosse il mio alto fattore: 
fecemi la divina podestate, 
la somma sapienza e ’l primo amore.                           6

Dinanzi a me non fuor cose create 
se non etterne, e io etterno duro. 
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate".                         9

Queste parole di colore oscuro 
vid’io scritte al sommo d’una porta; 
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».                 12

Ed elli a me, come persona accorta: 
«Qui si convien lasciare ogne sospetto; 
ogne viltà convien che qui sia morta.                            15

Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto 
che tu vedrai le genti dolorose 
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».                          18

E poi che la sua mano a la mia puose 
con lieto volto, ond’io mi confortai, 
mi mise dentro a le segrete cose.                                 21

Quivi sospiri, pianti e alti guai 
risonavan per l’aere sanza stelle, 
per ch’io al cominciar ne lagrimai.                                 24

Diverse lingue, orribili favelle, 
parole di dolore, accenti d’ira, 
voci alte e fioche, e suon di man con elle                     27

facevano un tumulto, il qual s’aggira 
sempre in quell’aura sanza tempo tinta, 
come la rena quando turbo spira.                                  30

E io ch’avea d’error la testa cinta, 
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo? 
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».                       33

Ed elli a me: «Questo misero modo 
tegnon l’anime triste di coloro 
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.                        36

Mischiate sono a quel cattivo coro 
de li angeli che non furon ribelli 
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.                               39

Caccianli i ciel per non esser men belli, 
né lo profondo inferno li riceve, 
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».                            42

 

E io: «Maestro, che è tanto greve 
a lor, che lamentar li fa sì forte?». 
Rispuose: «Dicerolti molto breve.                                  45

Questi non hanno speranza di morte 
e la lor cieca vita è tanto bassa, 
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.                              48

Fama di loro il mondo esser non lassa; 
misericordia e giustizia li sdegna: 
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».                 51

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna 
che girando correva tanto ratta, 
che d’ogne posa mi parea indegna;                              54

e dietro le venìa sì lunga tratta 
di gente, ch’i’ non averei creduto 
che morte tanta n’avesse disfatta.                                 57

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, 
vidi e conobbi l’ombra di colui 
che fece per viltade il gran rifiuto.                                   60

Incontanente intesi e certo fui 
che questa era la setta d’i cattivi, 
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.                                       63

Questi sciaurati, che mai non fur vivi, 
erano ignudi e stimolati molto 
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.                                66

Elle rigavan lor di sangue il volto, 
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi 
da fastidiosi vermi era ricolto.                                          69

E poi ch’a riguardar oltre mi diedi, 
vidi genti a la riva d’un gran fiume; 
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi                       72

ch’i’ sappia quali sono, e qual costume 
le fa di trapassar parer sì pronte, 
com’io discerno per lo fioco lume».                               75

Ed elli a me: «Le cose ti fier conte 
quando noi fermerem li nostri passi 
su la trista riviera d’Acheronte».                                      78

Allor con li occhi vergognosi e bassi, 
temendo no ’l mio dir li fosse grave, 
infino al fiume del parlar mi trassi.                                 81

Ed ecco verso noi venir per nave 
un vecchio, bianco per antico pelo, 
gridando: «Guai a voi, anime prave!                               84

Non isperate mai veder lo cielo: 
i’ vegno per menarvi a l’altra riva 
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.                       87

E tu che se’ costì, anima viva, 
pàrtiti da cotesti che son morti». 
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,                             90

disse: «Per altra via, per altri porti 
verrai a piaggia, non qui, per passare: 
più lieve legno convien che ti porti».                              93

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare: 
vuolsi così colà dove si puote 
ciò che si vuole, e più non dimandare».                       96

Quinci fuor quete le lanose gote 
al nocchier de la livida palude, 
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.                   99

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude, 
cangiar colore e dibattero i denti, 
ratto che ’nteser le parole crude.                                   102

Bestemmiavano Dio e lor parenti, 
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme 
di lor semenza e di lor nascimenti.                               105

Poi si ritrasser tutte quante insieme, 
forte piangendo, a la riva malvagia 
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.                108

Caron dimonio, con occhi di bragia, 
loro accennando, tutte le raccoglie; 
batte col remo qualunque s’adagia.                             111

 


Come d’autunno si levan le foglie 
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo 
vede a la terra tutte le sue spoglie,                               114

 

similemente il mal seme d’Adamo 
gittansi di quel lito ad una ad una, 
per cenni come augel per suo richiamo.                     117

 


Così sen vanno su per l’onda bruna, 
e avanti che sien di là discese, 
anche di qua nuova schiera s’auna.                             120

«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese, 
«quelli che muoion ne l’ira di Dio 
tutti convegnon qui d’ogne paese:                                123

e pronti sono a trapassar lo rio, 
ché‚ la divina giustizia li sprona, 
sì che la tema si volve in disio.                                      126

Quinci non passa mai anima buona; 
e però, se Caron di te si lagna, 
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».             129

Finito questo, la buia campagna 
tremò sì forte, che de lo spavento 
la mente di sudore ancor mi bagna.                            132

La terra lagrimosa diede vento, 
che balenò una luce vermiglia 
la qual mi vinse ciascun sentimento; 

e caddi come l’uom cui sonno piglia.                          136

 

Parafrasi

"Attraverso me si entra nella città del dolore, attraverso me si va nel dolore eterno, attraverso me si va tra le anime perdute (dannati).

La giustizia ha fatto agire il mio alto Creatore (Dio): mi hanno costruito la potestà divina (Padre), la somma sapIenza (Figlio) e il primo amore (Spirito Santo).

Prima di me non fu creato nulla, se non eterno, e io durerò eternamente. Lasciate ogni speranza, voi che entrate qui".

Io vidi queste parole scritte con colore (o senso) oscuro in cima a una porta, per cui dissi: «Maestro, non ne capisco il senso».

Ed egli mi rispose, come persona saggia:«Qui è necessario abbandonare ogni esitazione, e non bisogna essere vili.

Noi siamo giunti nel luogo dove, come ti ho detto, vedrai le anime dannate che hanno perduto la luce dell'intelligenza divina».

E dopo che mi ebbe preso per mano, con volto sorridente che mi confortò, mi fece entrare in quel luogo separato dal mondo dei vivi (all'Inferno).

Qui sospiri, pianti e alti lamenti risuonavano in quell'aria priva di stelle, in modo tale che all'inizio ne piansi.


Lingue strane, pronunce orribili, parole di dolore, imprecazioni d'ira, voci acute e flebili, e un suono di mani

 

 

insieme ad esse creavano un frastuono, che rimbomba di continuo in quell'aria eternamente oscura, proprio come la sabbia quando soffia la tempesta.

E io, che avevo la testa piena di dubbi, dissi: «Maestro, che cos'è quello che sento? e chi sono costoro che sembrano così sopraffatti dal dolore?»

Lui mi rispose: «Questa è la misera condizione delle anime tristi di quelli che vissero senza infamia e senza meriti.

Sono mescolate a quell'insieme spregevole degli angeli che non si ribellarono a Dio, né gli rimasero fedeli, ma furono neutrali.

I cieli li cacciano per non perdere la loro bellezza, né l'Inferno li accoglie nelle sue profondità, poiché i dannati (rei) potrebbero ricevere alcuna gloria dalla loro presenza».

 

E io: «Maestro, che cosa è tanto fastidioso per loro, da farli lamentare così forte?» Mi rispose: «Te lo dirò molto brevemente.


Queste anime non possono sperare di morire, e la loro attuale condizione è tanto spregevole che invidiano qualunque altra sorte.

Il mondo non lascia che ci sia di loro alcun ricordo; la misericordia e la giustizia divina li sdegrano; non perdiamo tempo a parlare di loro, ma da' una rapida occhiata e passa oltre».
E io, guardando, vidi una insegna che, girando su se stessa, correva tanto rapidamente che mi sembrava non dovesse fermarsi mai;

e dietro di essa veniva una fila di anime tanto lunga, che non avrei mai creduto che la morte ne avesse disfatte tante (che ci fossero stati tanti defunti).

Dopo che ebbi riconosciuto qualcuno di loro, vidi e riconobbi l'ombra di colui che per viltà fece il grande rifiuto.

Capii all'istante e fui certo che questa era la schiera dei vili che spiacevano tanto a Dio quanto ai suoi nemici (diavoli).

Questi sciagurati, che non vissero mai veramente, erano nudi e punti continuamente da mosconi e vespe tutt'intorno.

Esse facevano sanguinare il loro volto, che cadeva a terra frammisto a lacrime ed era raccolto da vermi ripugnanti.

E quando spinsi il suo sguardo oltre, vidi delle anime sulla sponda di un grande fiume; allora dissi: «Maestro, ora concedimi di sapere chi sono quelle anime, e quale istinto le fa sembrare così ansiose di passare dall'altra parte, proprio come mi sembra di vedere nella poca luce».


Ed egli mi rispose: «Le cose ti saranno chiare quando noi giungeremo sulla triste sponda del fiume Acheronte».


Allora, abbassando gli occhi con vergogna, nel timore che parlando potessi dargli fastidio, non pronunciai parola fino al fiume.

Ed ecco che un vecchio, dal volto coperto da una barba bianca, veniva verso di noi su una barca, gridando: «Guai a voi, anime malvagie!

Non sperate di poter mai vedere il cielo: io vengo per condurvi all'altra sponda, nelle tenebre eterne, tra le fiamme e il ghiaccio.

E tu che sei lì, anima viva, allontànati da costoro che sono morti». Ma poiché vide che io non me ne andavo, disse: «Tu giungerai all'approdo per un'altra via, per altri porti, non certo qui per passare (nell'Aldilà); è stabilito che ti porterà una nave più leggera della mia».



E il maestro gli disse: «Caronte, non ti angustiare: si vuole così lassù (in cielo) dove è possibile tutto ciò che si vuole, quindi non dire altro».

Da lì in avanti si acquietarono le guance coperte di pelo del traghettatore di quella sozza palude, il quale aveva gli occhi circondati da ruote di fiamme.

Ma quelle anime, che erano nude e prostrate, cambiarono colore e batterono i denti, appena udirono le sue parole crude.

Bestemmiavano Dio e i loro genitori, la specie umana, il luogo, il momento e il seme del loro concepimento e della loro nascita.

Poi si portarono tutte insieme, piangendo disperati, alla sponda del fiume infernale che attende ogni uomo che non teme Dio.

Il demonio Caronte, con gli occhi fiammeggianti come brace, facendo loro dei cenni le raccoglie tutte; batte col suo remo qualunque di essi che si stenda (sul fondo della barca).

Come d'autunno cadono le foglie, una dopo l'altra, finché il ramo vede a terra tutte le sue vesti,

 

 

allo stesso modo la cattiva discendenza di Adamo (i dannati) si getta da quella riva ad una ad una, rispondendo ai cenni di Caronte, come un uccello risponde al richiamo.


Così vanno lungo le acque scure del fiume, e prima che siano scese dall'altra parte, di qua si è accalcata un'altra schiera.

«Figlio mio,» disse il nobile maestro, «tutti quelli che muoiono in disgrazia si radunano qui da tutto il mondo:


e sono ansiosi di passare il fiume, poiché la giustizia di Dio li sprona e fa sì che il timore si trasformi in desiderio.


Di qui non passa nessun'anima che sia buona, perciò, se Caronte si lamenta di te, ormai puoi capire cosa significano le sue parole (che sei destinato alla salvezza)».

 

Alla fine di ciò, quei luoghi oscuri tremarono così forte che, dalla paura, il solo ricordo mi bagna di sudore.

La terra bagnata di lacrime produsse un vento, il quale fece lampeggiare una luce rossastra che sopraffece ogni mio senso;

 

e caddi come l'uomo preso da sonno (svenni).


Inferno, Canto III

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Michelangelo, particolare del Giudizio Universale

"...Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...



Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."


Così sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s'auna...


Argomento del Canto

Dante e Virgilio giungono alla porta dell'Inferno. Ingresso nell'Antinferno, dove incontrano gli ignavi (tra loro Celestino V). Incontro conCaronte, taghettatore dei dannati sul fiume Acheronte. Terremoto e svenimento di Dante.
È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.

La porta dell'Inferno (1-21)

Dante e Virgilio giungono di fronte alla porta dell'Inferno, su cui campeggia una scritta di colore scuro. Essa mette in guardia chi sta per entrare, ammonendo che tale porta durerà in eterno e che una volta varcata non c'è speranza di tornare indietro. Dante non ne afferra subito il senso e Virgilio lo ammonisce a sua volta a non aver paura e a prepararsi all'ingresso nell'Inferno, tra le anime dannate. Quindi il poeta latino prende amorevolmente Dante per mano e lo conduce attraverso la porta.

Gli ignavi. Celestino V (22-69)

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Ritratto di Celestino V

Una volta varcata la soglia, Dante sente un orribile miscuglio di urla, parole d'ira, strane lingue che lo spingono a piangere in quel luogo buio e oscuro. Dante chiede a Virgilio chi emetta quegli orribili suoni e il maestro spiega che sono gli ignavi, le anime di coloro che non si schierarono né dalla parte del bene né da quella del male e che ora risiedono nel Vestibolo dell'Inferno. Sono mescolate agli angeli che non si schierarono né con Dio né con Lucifero; le anime degli ignavi sono tanto misere che secondo Virgilio non sono degne di essere guardate da Dante troppo a lungo.
Dante vede che le anime corrono dietro un'insegna senza significato, che gira vorticosamente su se stessa. Formano una schiera infinita e tra esse Dante crede di riconoscere papa 
Celestino V, che per viltà rinunciò al soglio pontificio. Il poeta è sicuro che questi siano proprio gli ignavi, che spiacquero tanto a Dio quanto ai suoi nemici: essi sono punti e tormentati da vespe e mosconi, che gli fanno colare il sangue dal volto, il quale cade a terra mischiato alle loro lacrime e viene raccolto da vermi ripugnanti.


Il fiume Acheronte. Caronte (70-105)

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G. Doré, Il nocchiero Caronte

Poco dopo i due poeti giungono nei pressi di un grande fiume (l'Acheronte), sulla cui sponda sono accalcate le anime dannate. Dante è ansioso di sapere da Virgilio chi siano quelle anime e cosa le renda in apparenza pronte a varcare il fiume, ma il maestro risponde che avrà tutte le risposte quando raggiungeranno l'Acheronte. Dante prosegue senza aggiungere altro e poco dopo vede giungereCaronte, il traghettatore dei dannati, che rema verso di loro a bordo di una barca: è un vecchio dalla barba bianca, che grida minaccioso alle anime di essere venuto a prenderle per portarle all'Inferno, tra le pene eterne.
Caronte si rivolge poi a Dante e lo invita ad andarsere, essendo ancora vivo; aggiunge anche che Dante dopo la morte non andrà lì, bensì in Purgatorio. Il demone è zittito da Virgilio, che gli ricorda che il viaggio di Dante è voluto da Dio e lui non può opporsi. A quel punto il nocchiero, che ha gli occhi circondati di fiamme, tace, mentre le anime tremano di terrore e bestemmiano Dio, i loro genitori, il momento della loro nascita.


Caronte porta via i dannati (106-129)

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G. Doré, Caronte e i dannati

I dannati si accalcano lungo la sponda e Caronte fa loro cenno di salire sulla sua barca: stipa le anime dentro di essa e batte col suo remo qualunque anima tenti di adagiarsi sul fondo. I dannati si gettano dalla riva alla barca proprio come le foglie cadono dagli alberi in autunno. Caronte le porta dall'altra parte del fiume e, prima che siano scese, sulla sponda opposta si è formata un'altra schiera.
Virgilio spiega a Dante che tutti i dannati finiscono sulle sponde dell'Acheronte e qui la giustizia divina li spinge a desiderare ardentemente di passare dall'altra parte. Perciò non c'è da stupirsi se Caronte protesta per la presenza di Dante in quel luogo, dal momento che il poeta è destinato ad essere salvo.


Terremoto e svenimento di Dante (130-136)

Alla fine delle parole di Virgilio, il suolo infernale è scosso da un tremendo terremoto, così spaventoso che Dante ne ha paura al solo ricordo. Si vede una luce rossastra, la quale fa perdere i sensi a Dante; il poeta cade svenuto a terra.

Interpretazione complessiva

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Gli ignavi (min. ferrarese, XV sec.)

Il canto si apre con la famosa descrizione della porta infernale: non viene detto dove essa precisamente si collochi, qui viene citata soltanto la scritta che campeggia su di essa, di colore oscuro (forse anche quanto al senso, visto che Dante deve chiedere spiegazioni a Virgilio). L'ingresso nell'Inferno ha un effetto traumatico per Dante, colpito da sensazioni visive (l'oscurità fitta) e uditive (le disperate grida dei dannati) che lo fanno angosciare e provocano in lui il pianto, come altre volte avverrà nella Cantica.
Il Vestibolo (o 
Antinferno) è il primo luogo dell'Oltretomba a essere visitato. Esso è abitato dagli ignavi, non propriamente dannati ma in ogni caso condannati a una pena molto severa, in cui è visibile un contrappasso: l'insegna che essi devono inseguire è senza significato, come priva di scopo è stata la loro vita terrena (infatti Dante li definisce sciaurati, che mai non fur vivi). Tra essi è citato, indirettamente, papa Celestino V,  colui / che fece per viltade il gran rifiuto: Dante gli rimproverava di aver ceduto la tiara a Bonifacio VIII, suo acerrimo nemico e artefice del suo esilio in seguito alla vittoria dei Neri a Firenze. L'identificazione pare certa, anche se non sono mancati commentatori che hanno visto in lui altri personaggi, come Esaù, Pilato, Giuliano l'Apostata. Insieme a loro vi sono anche gli angeli che, al momento della ribellione di Lucifero contro Dio, non si schierarono né da una parte né dall'altra, restando neutrali; la presenza di questi personaggi nell'Antinferno è motivata da Virgilio col fatto che i dannati potrebbero attribuirsi dei meriti rispetto a loro, il che spiega anche il disprezzo mostrato dal maestro e il suo invito a Dante affinché non si soffermi troppo sulla loro pena.
Il vero protagonista dell'episodio è poi Caronte, il traghettatore delle anime dannate che Dante descrive traendo spunto dal personaggio virgiliano del libro VI dell
'Eneide: rispetto al Caronte classico, tuttavia, quello dantesco appare con tratti decisamente demoniaci (soprattutto gli occhi circondati di fiamme) e ciò è coerente con la interpretazione in chiave cristiana delle figure mitologiche, in quanto le divinità infere venivano spesso considerate personificazione del diavolo e lo stesso farà Dante con altre creature infernali, come ad esempio Minosse,CerberoPluto. La reazione del demone all'apparire di Dante è analoga a quella degli altri guardiani infernali che il poeta incontrerà più avanti, in quanto anche Caronte tenta di spaventarlo e di impedire il suo viaggio attraverso l'Inferno: queste figure simboleggiano gliimpedimenta di natura peccaminosa che ostacolano il cammino di redenzione dell'anima umana, non a caso infatti è sempre Virgilio (allegoria della ragione) a zittirli e a consentire il passaggio di Dante. Significativo è il fatto che qui Caronte predica a Dante la sua salvezza, dicendogli che approderà ad altri porti e che sarà portato da una barca più lieve della sua, ovvero quella dell'angelo nocchiero del Purgatorio; Virgilio lo riduce al silenzio con una formula (vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare) che userà, con lievi varianti, anche con Minosse e con Pluto.
I dannati sono descritti nella loro fisicità, come corpi nudi e prostrati, che si assiepano sulla riva dell'Acheronte ansiosi di passare dall'altra parte (Virgilio spiega a Dante che è la giustizia divina a spronarli in tal senso). I dannati bestemmiano e maledicono il giorno in cui sono nati, secondo i modelli biblici di Giobbe e di Geremia; hanno un aspetto corporeo, in quanto le pene che dovranno subire provocheranno in loro un dolore fisico. Il loro gran numero, come del resto quello degli ignavi, lascia intendere la diffusione del male e del peccato sulla Terra, come appare chiaro dal fatto che Caronte cerchi di stiparne il più possibile sulla sua barca (colpendo col remo chiunque tenti di adagiarsi sul fondo, per occupare meno spazio) e dal particolare che, prima che il traghettatore sia giunto sull'altra sponda, su quella opposta si è già formata una schiera altrettanto folta. Alquanto enigmatica, infine, la chiusa dell'episodio col terremoto la cui causa non è chiarita da Dante, e che sembra avere l'unica funzione di espediente narrativo per descrivere lo svenimento del poeta e farlo poi risvegliare al di là del fiume infernale (qualcosa di molto simile avverrà anche alla fine del 
Canto V, dopo l'episodio di Paolo e Francesca).


I terremoti ultraterreni

Il Canto si chiude con una violenta scossa di terremoto, causato da un vento sotterraneo come riteneva la fisica medievale; insieme a una luce rossastra, la cui origine è sconosciuta, provoca lo svenimento di Dante che si risveglierà all'inizio del Canto seguente dall'altra parte dell'Acheronte, nel Limbo. Dante ricorre qui a un espediente narrativo per non dover descrivere il passaggio del fiume, cosa che accadrà anche alla fine del Canto V (Dante sverrà sopraffatto dall'angoscia di Paolo e Francesca).
A un terremoto allude forse anche la 
ruina che sarà descritta nel Canto V, di fronte alla quale i lussuriosi bestemmiano la virtù divina (potrebbe essere stata prodotta dal terremoto che investì tutta la Terra il giorno della morte di Cristo). Allo stesso evento si riferisce invece in modo esplicito il diavolo Malacoda nel Canto XXI, 112-114, quando spiega ai due poeti che il ponte di roccia che permette il passaggio dalla V alla VI Bolgia è crollato in seguito al terremoto: le sue parole permettono di datare con precisione il viaggio dantesco, essendo trascorsi 1266 anni dalla morte di Cristo (quindi siamo nell'anno 1300, il giorno del sabato santo).
Di natura ben diversa il terremoto che investe il Purgatorio al momento in cui l'anima di un penitente completa la sua espiazione e può finalmente ascendere all'Eden. È quanto avviene alla fine del 
Canto XX, quando il poeta Stazio termina la sua pena e spiega in seguito a Dante (Canto XXI) e a Virgilio che al di sopra della porta del Purgatorio non possono verificarsi normali eventi «sismici», se non per espressa volontà divina.

Note e passi controversi

La scritta sulla porta dell'Inferno (vv. 1-9) indica che è la porta stessa a parlare, secondo l'uso attestato nell'antichità di porre iscrizioni di questo tipo su vasi e altri manufatti (l'oggetto, parlando in prima persona, indicava l'artigiano che l'aveva prodotto). Qui ovviamente il creatore della porta è Dio, indicato con le Persone della Trinità (la divina podestate, il Padre; la somma sapienza, il Figlio; il primo amore, lo Spirito Santo).
Al v. 29 
sanza tempo tinta significa «eternamente oscura».
Il v. 31 presenta la doppia lezione 
error / orror, con diverso significato. La lezione scelta da Petrocchi è la prima, perché più difficile e perché esprime il dubbio poi chiarito da Virgilio.
Il v. 42 (
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli) indica che i dannati potrebbero vantarsi nei confronti degli ignavi, in quanto questi ultimi non hanno commesso alcun vero peccato.
I vv. 59-60 indicano quasi certamente l'anima di Celestino V, anche se non sono mancate altre interpretazioni (Esaù, Pilato, Giuliano l'Apostata...). Il 
gran rifiuto allude alla rinuncia alla dignità papale, avvenuta il 13 dic. 1294 e in seguito alla quale venne eletto Bonifacio VIII, il papa che coi suoi maneggi politici causò indirettamente l'esilio di Dante.
Il 
lieve legno  citato da Caronte (v. 93) è il vasello snelletto e leggero  con cui l'angelo nocchiero trasporta le anime dei penitenti dalla foce del Tevere sino alla spiaggia del Purgatorio (cfr. Purg.II, 13 ss.). Il demone predice dunque a Dante la futura salvezza.
I vv. 95-96 (
vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare) costituiscono una formula fissa, che si ripeterà identica con Minosse (V, 23-24) e lievemente variata con Plutone (VII, 11-12).
Al v. 116 
gittansi, plurale, è concordato a senso col singolare collettivo il mal seme d'Adamo (v. 115).
Nel v. 134 il 
che può essere soggetto di vento, quindi è il vento sotterraneo che produce la luce rossastra. Altri interpretano ché, con valore causale.