INFERNO, CANTO IV

Testo

Ruppemi l’alto sonno ne la testa 
un greve truono, sì ch’io mi riscossi 
come persona ch’è per forza desta;                               3

e l’occhio riposato intorno mossi, 
dritto levato, e fiso riguardai 
per conoscer lo loco dov’io fossi.                                    6

Vero è che ’n su la proda mi trovai 
de la valle d’abisso dolorosa 
che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.                                  9

Oscura e profonda era e nebulosa 
tanto che, per ficcar lo viso a fondo, 
io non vi discernea alcuna cosa.                                    12

«Or discendiam qua giù nel cieco mondo», 
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo».                            15

E io, che del color mi fui accorto, 
dissi: «Come verrò, se tu paventi 
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».               18

Ed elli a me: «L’angoscia de le genti 
che son qua giù, nel viso mi dipigne 
quella pietà che tu per tema senti.                                 21

Andiam, ché la via lunga ne sospigne». 
Così si mise e così mi fé intrare 
nel primo cerchio che l’abisso cigne.                           24

Quivi, secondo che per ascoltare, 
non avea pianto mai che di sospiri, 
che l’aura etterna facevan tremare;                               27

ciò avvenia di duol sanza martìri 
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi, 
d’infanti e di femmine e di viri.                                         30

Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi 
che spiriti son questi che tu vedi? 
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,                          33

ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi, 
non basta, perché non ebber battesmo, 
ch’è porta de la fede che tu credi;                                   36

e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo, 
non adorar debitamente a Dio: 
e di questi cotai son io medesmo.                                 39

Per tai difetti, non per altro rio, 
semo perduti, e sol di tanto offesi, 
che sanza speme vivemo in disio».                               42

Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi, 
però che gente di molto valore 
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.                     45

«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore», 
comincia’ io per voler esser certo 
di quella fede che vince ogne errore:                            48

«uscicci mai alcuno, o per suo merto 
o per altrui, che poi fosse beato?». 
E quei che ’ntese il mio parlar coverto,                         51

rispuose: «Io era nuovo in questo stato, 
quando ci vidi venire un possente, 
con segno di vittoria coronato.                                        54

Trasseci l’ombra del primo parente, 
d’Abèl suo figlio e quella di Noè, 
di Moisè legista e ubidente;                                            57

Abraàm patriarca e Davìd re, 
Israèl con lo padre e co’ suoi nati 
e con Rachele, per cui tanto fé;                                       60 

e altri molti, e feceli beati. 
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi, 
spiriti umani non eran salvati».                                       63

Non lasciavam l’andar perch’ei dicessi, 
ma passavam la selva tuttavia, 
la selva, dico, di spiriti spessi.                                        66

Non era lunga ancor la nostra via 
di qua dal sonno, quand’io vidi un foco 
ch’emisperio di tenebre vincia.                                       69

Di lungi n’eravamo ancora un poco, 
ma non sì ch’io non discernessi in parte 
ch’orrevol gente possedea quel loco.                           72

«O tu ch’onori scienzia e arte, 
questi chi son c’hanno cotanta onranza, 
che dal modo de li altri li diparte?».                               75

E quelli a me: «L’onrata nominanza 
che di lor suona sù ne la tua vita, 
grazia acquista in ciel che sì li avanza».                       78

Intanto voce fu per me udita: 
«Onorate l’altissimo poeta: 
l’ombra sua torna, ch’era dipartita».                              81

Poi che la voce fu restata e queta, 
vidi quattro grand’ombre a noi venire: 
sembianz’avevan né trista né lieta.                                84

Lo buon maestro cominciò a dire: 
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:                               87

quelli è Omero poeta sovrano; 
l’altro è Orazio satiro che vene; 
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.                                 90

Però che ciascun meco si convene 
nel nome che sonò la voce sola, 
fannomi onore, e di ciò fanno bene».                            93

Così vid’i’ adunar la bella scola 
di quel segnor de l’altissimo canto 
che sovra li altri com’aquila vola.                                    96

Da ch’ebber ragionato insieme alquanto, 
volsersi a me con salutevol cenno, 
e ’l mio maestro sorrise di tanto;                                    99

e più d’onore ancora assai mi fenno, 
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera, 
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.                              102

Così andammo infino a la lumera, 
parlando cose che ’l tacere è bello, 
sì com’era ’l parlar colà dov’era.                                   105

Venimmo al piè d’un nobile castello, 
sette volte cerchiato d’alte mura, 
difeso intorno d’un bel fiumicello.                                 108

Questo passammo come terra dura; 
per sette porte intrai con questi savi: 
giugnemmo in prato di fresca verdura.                        111

Genti v’eran con occhi tardi e gravi, 
di grande autorità ne’ lor sembianti: 
parlavan rado, con voci soavi.                                        114

Traemmoci così da l’un de’ canti, 
in loco aperto, luminoso e alto, 
sì che veder si potien tutti quanti.                                  117

Colà diritto, sovra ’l verde smalto, 
mi fuor mostrati li spiriti magni, 
che del vedere in me stesso m’essalto.                     120

I’ vidi Eletra con molti compagni, 
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea, 
Cesare armato con li occhi grifagni.                             123

Vidi Cammilla e la Pantasilea; 
da l’altra parte, vidi ’l re Latino 
che con Lavina sua figlia sedea.                                   126

Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, 
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia; 
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.                                     129

Poi ch’innalzai un poco più le ciglia, 
vidi ’l maestro di color che sanno 
seder tra filosofica famiglia.                                           132

Tutti lo miran, tutti onor li fanno: 
quivi vid’io Socrate e Platone, 
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;                    135

Democrito, che ’l mondo a caso pone, 
Diogenés, Anassagora e Tale, 
Empedoclès, Eraclito e Zenone;                                   138

e vidi il buono accoglitor del quale, 
Diascoride dico; e vidi Orfeo, 
Tulio e Lino e Seneca morale;                                       141

Euclide geomètra e Tolomeo, 
Ipocràte, Avicenna e Galieno, 
Averoìs, che ’l gran comento feo.                                  144

Io non posso ritrar di tutti a pieno, 
però che sì mi caccia il lungo tema, 
che molte volte al fatto il dir vien meno.                       147

La sesta compagnia in due si scema: 
per altra via mi mena il savio duca, 
fuor de la queta, ne l’aura che trema. 

E vegno in parte ove non è che luca.                            151


Parafrasi

Un forte tuono interruppe il sonno nella mia testa, così che io mi scossi come qualcuno che si sveglia di soprassalto;

e mossi intorno lo sguardo riposato, fissandolo dritto, e osservai con attenzione per capire dove mi trovassi.


In effetti mi ritrovai sull'orlo estremo della valle dolorosa dell'Inferno, che accoglie in sé un rimbombo di infiniti lamenti.

Era a tal punto oscura, profonda e nebulosa che pur figgendo lo sguardo al fondo, non riuscivo a vedere nulla.

«Ora iniziamo a scendere nel mondo cieco,» cominciò Virgilio pallido in volto. «Io andrò per primo, tu mi seguirai».

E io, accortomi del suo pallore, dissi: «Come potrò venire, se tu, che solitamente conforti ogni mio dubbio, sei spaventato?»

Lui mi rispose: «L'angoscia delle anime che sono relegate qui dipinge sul mio volto quel tormento che tu credi paura.

Andiamo, poiché il viaggio è lungo e non abbiamo tempo da perdere.» Così procedette e mi introdusse nel primo cerchio che attornia la voragine infernale.

Qui, stando ad ascoltare, si sentivano solo dei sospiri, che facevano tremare l'aria eterna;


ciò era dovuto al dolore senza tormenti subìto dalle schiere di anime, che erano molto numerose, di bambini, donne e uomini.

Il buon maestro mi disse: «Non mi chiedi chi sono questi spiriti che vedi? Prima di procedere oltre, voglio che tu sappia che essi non peccarono; e se essi hanno meriti ciò non è sufficiente, perché non hanno ricevuto il battesimo che ammette alla fede in cui tu credi;



e se essi sono vissuti prima del Cristianesimo, non adorarono Dio nel modo dovuto: io stesso faccio parte di questa categoria.

Siamo perduti per questa colpa e non per altri peccati, e la nostra unica pena è di vivere in un desiderio senza speranza».


Quando sentii questo provai un grande dolore al cuore, poiché compresi che in quel Limbo erano sospese anime di personaggi molto eminenti.

«Dimmi, o mio maestro e signore,» cominciai per accertarmi di quella fede che toglie ogni dubbio:


«è mai successo che qualcuno uscisse da questo luogo, per merito proprio o di altri, che poi diventasse beato?» E Virgilio, che comprese le mie velate parole, rispose: «Io ero da poco in questa condizione, quando vidi entrare qui un possente (Cristo), che portava i segni della vittoria.


Fece uscire da qui l'ombra del primo padre (Adamo), di suo figlio Abele e di Noè, di Mosè legislatore ubbidiente;


quella del patriarca Abramo e del re David, Israele (Giacobbe) coi suoi figli e con la moglie Rachele, per la quale fece così tanto;

e molti altri, e li rese tutti beati. E voglio che tu sappia che, prima di loro, nessuno spirito si era potuto salvare».


Mentre Virgilio parlava non cessavamo di camminare, ma superavamo quella fitta folla di spiriti.


Non avevamo percorso una lunga strada dal momento in cui mi ero risvegliato, quando io vidi una luce che superava un emisfero di tenebre.

Eravamo ancora a una certa distanza da essa, ma non tanto che io non potessi capire che quel luogo era occupato da spiriti onorevoli.

«O tu che fai onore alla scienza e all'arte, chi sono costoro che hanno tanta considerazione da avere una condizione diversa dalle altre anime?»

E Virgilio mi rispose: «La fama eccellente che nel mondo terreno ancora sopravvive di loro, acquista loro una grazia in Cielo che li distingue dagli altri spiriti».

Intanto io udii una voce: «Rendete onore all'altissimo poeta: la sua anima, che se n'era andata, ritorna».


Dopo che la voce cessò e si acquietò, vidi quattro grandi anime venirci incontro: non avevano aspetto triste, né lieto.

Il buon maestro cominciò a dire: «Osserva colui che ha quella spada in mano, che precede gli altri come il loro signore:

quello è Omero, il più grande di tutti i poeti; l'altro che lo segue è Orazio, autore delle Satire; il terzo è Ovidio e l'ultimo è Lucano.


Poiché ognuno di essi ha in comune con me il nome che pronunciò quella sola voce (il nome di poeta), mi rendono onore e in questo fanno bene».

Così vidi radurarsi la bella scuola poetica di quel signore che scrisse altissimi versi, che vola sopra gli altri come un'aquila.

Dopo che ebbero parlato un poco tra loro, si rivolsero a me facendomi cenni di saluto e il mio maestro sorrise di questo;

e mi resero un onore ancora maggiore, poiché mi accolsero nella loro schiera, così che fui il sesto membro di quel gruppo così assennato.

In questo modo procedemmo fino alla luce, dicendo cose che è bello tacere, proprio come era bello parlarne in quel luogo.

Giungemmo ai piedi di un nobile castello, circondato da sette ordini di mura e protetto intorno da un bel fiumicello.

Lo oltrepassammo come fosse di terra; entrai con questi saggi attraverso sette porte e giungemmo in un prato di fresca erba verde.

Vi erano delle anime con sguardi tranquilli e austeri, dall'aspetto molto autorevole: parlavano poco, con voci dolci.

Ci portammo in un angolo, in un punto aperto, luminoso e posto in alto, così che li potessimo vedere tutti quanti.


Lì di fronte, sopra l'erba verde come smalto, mi furono mostrati gli «spiriti magni» (le grandi anime), e in me stesso mi esalto di averli visti.

Io vidi Elettra con molti compagni, tra cui riconobbi Ettore ed Enea, Cesare armato con gli occhi minacciosi.


Vidi Camilla e Pentesilea; dalla parte opposta vidi il re Latino, che sedeva con sua figlia Lavinia.


Vidi Lucio Bruto che cacciò Tarquinio il Superbo, Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia; e tutto solo, in un angolo, vidi il Saladino.

Dopo aver alzato un poco più lo sguardo, vidi il maestro di tutti i sapienti (Aristotele) che sedeva in mezzo ad altri filosofi.

Tutti lo ammirano, tutti gli rendono onore: qui io vidi Socrate e Platone, che gli stanno più vicini degli altri;


(vidi) Democrito, che dice che il mondo è governato dal caso, Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone;

e vidi il saggio che decrisse le qualità delle piante, ovvero Dioscoride; e vidi Orfeo, Cicerone, Lino e il filosofo Seneca;

(vidi) Euclide, fondatore della geometria, e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno, e Averroè che scrisse il grande commento (ad Aristotele).

Io non posso parlare dettagliatamente di tutti, poiché la vastità della materia mi incalza a tal punto che, spesso, devo omettere dei particolari.

Il gruppo di sei poeti si divide in due: il saggio maestro mi conduce per un'altra strada, fuori dell'aria quieta e in quella che è burrascosa.


E giungo in una parte dove non c'è nulla che sia illuminato.




Inferno, Canto IV

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G. Stradano, Il Limbo (1587)

"Or discendiam qua giù nel cieco mondo,"
cominciò il poeta tutto smorto.
Io sarò primo e tu sarai secondo"...




Intanto voce fu per me udita:
"Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita"...



Venimmo al piè d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello...


Argomento del Canto

Ingresso nel Limbo. Descrizione delle anime e salvezza dei patriarchi biblici. Incontro con OmeroOrazioOvidio e Lucano. Il castello degli «spiriti magni».
È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.

Risveglio di Dante (1-24)

Un forte tuono risveglia Dante dal suo sonno, per cui il poeta si rialza e si guarda intorno. Comprende di essere al di là dell'Acheronte, nel primo dei nove Cerchi in cui è diviso l'Inferno, il cui fondo è così oscuro che non riesce a vedervi nulla. Virgilio invita Dante a seguirlo, ma con un pallore che allarma Dante, il quale infatti ne chiede il motivo. Virgilio risponde che la sua angoscia è dovuta alla presenza in quel luogo di anime che lui ben conosce, essendo lui stesso uno spirito relegato nel Limbo. Dopo aver ricordato a Dante che la strada da percorrere è lunga, lo conduce all'interno del Cerchio.

Ingresso nel Limbo (25-63)

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G. Doré, Il Limbo

Appena entrato nel Cerchio, Dante sente trarre sospiri da ogni parte, emessi dalle molte anime presenti che non subiscono alcuna pena. Virgilio spiega al discepolo che queste anime non commisero alcun peccato, ma non ricevettero il battesimo, il che li esclude per sempre dalla salvezza. Tra di essi vi sono anche i pagani che vissero virtuosamente ma non adorarono il Dio cristiano, compreso Virgilio stesso; la loro unica pena consiste del desiderio inappagato di vedere Dio. Dante comprende che nel Limbo sono «sospese» anime di grandissimo valore e virtuose.
Dante chiede poi a Virgilio se mai qualcuna di queste anime sia uscita dal Limbo, per merito suo o di altri. Virgilio risponde che poco tempo dopo il suo arrivo vide entrare Cristo trionfante (dopo la Risurrezione), che trasse fuori dal Limbo i 
patriarchi biblici per portarli in Paradiso: tra essi Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, David, Giacobbe e i suoi figli, Isacco, Rachele. Prima di loro, conclude Virgilio, nessuno si era mai salvato.


Incontro con i poeti antichi (64-105)

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G. Doré, I poeti del Limbo

Mentre parlano, i due poeti proseguono e si avvicinano a un punto del Limbo in cui Dante vede una luce, tanto vivida da formare un semicerchio luminoso. Dante si avvede subito che il luogo è abitato da anime particolarmente virtuose: chiede spiegazioni a Virgilio, il quale risponde che lì risiedono spiriti che hanno ottenuto una tale fama in vita da meritare un grado di distinzione nell'Aldilà. Si sente poi una voce, che invita a rendere onore a Virgilio che ritorna nel Limbo: Dante vede quattro imponenti anime farsi avanti, che non sembrano tristi né liete. Virgilio li presenta come Omero, che regge in mano una spada ed è come il re degli altri; Orazio, autore delle SatireOvidio, autore delle Metamorfosi eLucano, autore del Bellum civile
I quattro si trattengono un poco a parlare con Virgilio, poi si rivolgono amichevolemente a Dante; Virgilio sorride di ciò, come del fatto che Dante viene ammesso nel loro gruppo ed è 
sesto tra cotanto senno


Il castello degli «spiriti magni» (106-151)

I sei si avvicinano poi al punto luminoso, dove sorge un nobile castello che è circondato da sette ordini di mura ed è cinto da un fiume. Lo superano come se fosse terra solida, attraversano sette porte ed entrano in un verde prato, dove risiedono spiriti dall'aspetto autorevole e dallo sguardo fiero (gli «spiriti magni»). Il gruppo si mette in disparte, in un punto alto da dove possano vedere tutti i presenti: Dante scorge Elettra, Ettore, EneaCesare, Camilla, Pentesilea, il re Latino, Lavinia, Lucio Bruto, Lucrezia, Giulia (figlia di Cesare), Marzia (moglie diCatone Uticense), Cornelia (madre dei Gracchi), il Saladino. Dante vede anche un gruppo di filosofi, tra cui Aristotele, Socrate, Platone, Democrito, Diogene, Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone, Dioscoride. Vede anche dei poeti, tra cui Orfeo e Lino, nonché scrittori come Cicerone e Seneca, poi Euclide, Tolomeo, Ippocrate, Avicenna, Galeno, Averroè.
Dante non può nominarli tutti, quindi interrompe l'elenco; lui e Virgilio si separano dagli altri quattro poeti, scendendo nel 
II Cerchio dove l'aria è tempestosa e buia.

Interpretazione complessiva

Il Canto descrive il Limbo, il I Cerchio dell'Inferno dove sono relegate le anime di coloro che vissero virtuosamente, ma non furono battezzati (come i bambini morti in tenera età) oppure vissero prima di Cristo (come i pagani, fra cui Virgilio stesso). Questi spiriti non sono dannati, la loro unica pena consiste in un desiderio eternamente inappagato di vedere Dio e non potranno mai salvarsi. Il nome Limbo significa «lembo» e indica l'orlo estremo della voragine infernale.
Protagonista nella prima parte del Canto è ovviamente Virgilio, che impallidisce al suo ritorno nel luogo infernale cui appartiene e suscita i timori di Dante, che è appena all'inizio del suo difficile viaggio nell'Oltretomba: il maestro spiega le ragioni della sua angoscia, dovuta al dramma spirituale vissuto da lui e da tutte le anime confinate nel Limbo, escluse dalla salvezza non perché abbiano commesso peccati, ma solo in quanto non hanno conosciuto la fede cristiana. Dante tocca qui il delicato tema dell'apparente ingiustizia della condizione di queste anime, fra le quali egli comprende subito che sono inclusi personaggi di altissimo riguardo e che sono esclusi dalla salvezza perché nati prima della venuta di Cristo (è il caso di Virgilio, ma anche dei principali filsofi e personaggi pagani mostrati più avanti) o vissuti in terre lontane dall'Occidente in cui è avvenuta storicamente la predicazione cristiana, senza contare il caso dei bambini morti prima di ricevere il battesimo (e infatti il pianto degli 
infanti  è una sensazione uditiva che colpisce subito l'orecchio di Dante). Il poeta tornerà a più riprese su questo argomento che suscitava i dubbi suoi e di altri pensatori cristiani nel Medioevo, a cominciare dal Canto III del Purgatorio in cui proprio Virgilio spiegherà a Dante che la giustizia divina fa sì che i corpi umbratili delle anime possano subire pene fisiche e che questo mistero divino è incomprensibile alla ragione umana, come quello della Trinità (invano i filosofi antichi tentarono di dare risposta a simili questioni, così come ora essi desiderano invano conoscere Dio, destino che accomuna Aristotele, Platone e altri tra cui forse lo stesso poeta latino). In seguito, nei Canti XIX-XX del Paradiso, l'aquila del Cielo di Giove tornerà a spiegare a Dante che la salvezza è legata alla fede in Cristo venturo o venuto e che l'esclusione da essa per quelle persone vissute ai limiti estremi del mondo può sembrare ingiusta, ma è motivata dall'imperscrutabile volontà divina che la ragione umana non deve avere la presunzione di comprendere, in quanto la sua profondità è insondabile. L'unica eccezione rispetto al destino delle anime vissute nell'antichità è rappresentata dai patriarchi biblici che, secondo la testimonianza di Virgilio, soggiornarono nel Limbo fino alla morte e resurrezione di Cristo, che venne poi trionfante nell'Inferno a trarli fuori e portarli in Paradiso. Tra queste anime c'era anche Catone l'Uticense, divenuto poi custode del Purgatorio (cfr. Purg., I, 28 ss.), nonché altre figure da Dante incluse nella rosa dei beati dell'Empireo.
L'episodio serve a Dante anche per aprire un discorso intorno alla poesia, infatti i protagonisti del Canto sono quattro fra i principali poeti classici secondo il pensiero medievale: anzitutto Omero, autore di 
Iliade Odissea e presentato come il più autorevole del gruppo, quindi Orazio, Ovidio, Lucano. Va detto che Dante non conosceva il testo omerico direttamente, ma attraverso traduzioni e rimaneggiamenti tardi (l'episodio di Ulisse del Canto XXVI, ad esempio, è estraneo ai poemi classici); più diretta la sua conoscenza degli altri tre, soprattutto di Ovidio e Lucano di cui conosceva Metamorfosi e Bellum civile, entrambi fonte di innumerevoli immagini mitologiche. Il pensiero medievale aveva sottoposto specialmente Ovidio a un intenso lavoro di reinterpretazione in chiave cristiana, il che vale naturalmente anche per lo stesso Virgilio e per la letteratura classica in generale, per cui non c'è da stupirsi se Dante accorda la sua preferenza a questi autori che costituivano il «canone» del Medioevo latino ed erano presi a modello dagli scrittori di poesia; tra essi vi era una sorta di gradazione di importanza, per cui si può ipotizzare che l'ordine in cui li cita Dante rispetti tale gerarchia e consideri Virgilio e Omero come i modelli più autorevoli, non solo in quanto maestri di letteratura ma anche di filosofia e sapere, il che vale in particolare per il poeta latino. Dante stesso gareggia proprio con Ovidio e Lucano in Inf., XXV, 94-102, allorché descrive le mostruose trasformazioni dei ladri nella VII Bolgia e manifesta con un certo orgoglio la propria abilità che gli consente, a suo dire, di superare di gran lunga il loro esempio e il loro magistero. Già in questo Canto, del resto, il poeta moderno viene accolto nella compagnia di quelli antichi e si vanta di essere sesto tra cotanto senno, ammesso alla discussione di profondi argomenti che, in virtù di una sorta di reticenza, non esplicita al lettore.
Nella seconda parte viene descritto il castello degli «spiriti magni», ovvero i pagani virtuosi che si sono distinti per meriti letterari, militari, scientifici o morali, e che pur non essendo salvi godono di un maggior grado di considerazione rispetto alle altre anime. Tra questi Dante cita personaggi del mito classico, sia del ciclo troiano sia di quello latino e personaggi dell'antica storia romana, come il Bruto che cacciò Tarquinio il Superbo, Lucrezia moglie di Collatino che si suicidò per la violenza subita da Sesto Tarquinio, la figlia di Giulio Cesare, la moglie di Catone Uticense. Cita anche personaggi musulmani, come il Saladino e i filosofi Avicenna e Averroè, nonché quasi tutti i filosofi greci, tra i quali Aristotele è definito 
maestro di color che sanno. Il luogo in cui essi risiedono è un nobile castello che li tiene separati dal resto delle anime del Limbo, in ragione dell'eccellenza che essi raggiunsero durante la vita terrena, e che rappresenta l'unico punto luminoso nella tenebrosa oscurità del I Cerchio; all'interno vi è un giardino la cui descrizione ricorda molto quella classica del locus amoenus, nonché la raffigurazione dei Campi Elisi dove Enea, nel libro VI dell'Eneide, incontra l'ombra del padre Anchise (l'eroe troiano figura tra gli spiriti indicati da Dante, mentre curiosamente assente è il padre che non viene mai presentato direttamente nel poema). L'episodio ha anche una certa attinenza con quello della valletta dei principi negligenti (Purg.VII-VIII), in cui sarà il poeta Sordello a indicare a Dante e Virgilio alcune anime particolarmente eminenti, in modo a simile a quanto Anchise fa col figlio Enea nel poema virgiliano mostrandogli i futuri eroi dell'antica Roma.

La speranza per i bambini morti senza battesimo

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Papa Benedetto XVI (2007)

Uno degli aspetti più problematici inerenti le anime confinate nel Limbo riguarda i bambini morti prima di essere battezzati, che pur essendo innocenti e non avendo commesso alcuna colpa sono irrimediabilmente esclusi dalla salvezza: il punto doveva colpire non poco i teologi medievali, che infatti se ne occupano in più di uno scritto, ed anche lo stesso Dante vi accenna ripetutamente nella sua descrizione del I Cerchio da cui proviene la sua guida nella prima parte del viaggio, il poeta latino Virgilio. In Inf., IV, 29-30 egli sottolinea che nel Limbo si sentono dei profondi sospiri emessi dalle anime lì relegate, turbe, ch'eran molte e grandi, / d'infanti e di femmine e di viri, mentre in Purg.VII, 31-33 è Virgilio a spiegare al concittadino Sordello che nel I Cerchio ci sono anche i pargoli innocenti / dai denti morsi de la morte avante / che fosser de l'umana colpa esenti, parole in cui è evidente l'apparente ingiustizia che la volontà divina sembra riservare a questa categoria di anime. Va aggiunto che l'aquila degli spiriti giusti, nel suo discorso sulla predestinazione e sulla salvezza nei Canti XIX-XXdel Paradiso, risponde al dubbio di Dante sull'argomento (che lui stesso dichiara che lo ha tormentato a lungo) riconducendo tutto all'imperscrutabile giudizio divino, per cui ciò che può sembrare un'apparente ingiustizia trova la sua spiegazione nell'abisso della saggezza di Dio, che però è inconoscibile al limitato intelletto umano. Il tema è delicato, in quanto l'esistenza del Limbo era ammessa dalla dottrina cristiana ma non trovava giustificazione in nessun punto delle Scritture, senza contare che il battesimo non era sempre condizione indispensabile per essere ammessi alla grazia: oltre all'eccezione rappresentata dai patriarchi biblici, rimasti nel Limbo fino alla Resurrezione di Cristo e poi portati da Lui in Paradiso, la dottrina riconosceva il caso di quei pagani che per meriti eccezionali e in virtù di un alto privilegio erano stati salvati, di cui vi sono vari esempi anche nel poema dantesco (i più clamorosi sono quelli di Catone Uticense, Rifeo e Traiano). Recentemente la Chiesa Cattolica è tornata sulla questione dei bambini morti senza battesimo e ha cautamente ipotizzato che per essi vi possa essere una speranza di salvezza, rimuovendo dunque il carattere di perentorietà circa la loro perdizione che era posta dalla teologia medievale: nel 2007 la Commissione Teologica Internazionale ha infatti redatto un documento, approvato dal pontefice Benedetto XVI, in cui si afferma che il battesimo è condizione necessaria per essere ammessi alla grazia, ma che è lecito sperare che Dio possa salvare i bambini morti senza aver ricevuto il sacramento (dunque l'esistenza del Limbo non viene negata e, anzi, esso viene ritenuta un'«ipotesi teologica possibile», ma viene di molto attenutata la sua importanza sul piano della salvezza individuale). Ecco come si esprime la Chiesa nel citato documento:

«La conclusione dello studio è che vi sono ragioni teologiche e liturgiche per motivare la speranza che i bambini morti senza Battesimo possano essere salvati e introdotti nella beatitudine eterna, sebbene su questo problema non ci sia un insegnamento esplicito della Rivelazione. Nessuna delle considerazioni che il testo propone per motivare un nuovo approccio alla questione, può essere addotta per negare la necessità del Battesimo né per ritardare il rito della sua amministrazione. Piuttosto vi sono ragioni per sperare che Dio salverà questi bambini, poiché non si è potuto fare ciò che si sarebbe desiderato fare per loro, cioè battezzarli nella fede della Chiesa e inserirli visibilmente nel Corpo di Cristo... Gli adulti, essendo stati dotati di ragione, coscienza e libertà, sono responsabili del proprio destino, nella misura in cui accolgono o respingono la grazia di Dio. I bambini tuttavia, non avendo ancora l’uso della ragione, della coscienza e della libertà, non possono decidere per se stessi... Da un punto di vista teologico, lo sviluppo di una teologia della speranza e di una ecclesiologia della comunione, insieme al riconoscimento della grandezza della misericordia divina, mettono in discussione un’interpretazione eccessivamente restrittiva della salvezza» (testo approvato il 19 genn. 2007 e pubblicato sul sito ufficiale del Vaticano).

Tale posizione della Chiesa non fa che risolvere, almeno in parte, i dubbi teologici che già Dante e i pensatori del suo tempo avevano avanzato sulla questione, e pur non dichiarando espressamente che questi bambini saranno salvi, tuttavia riconduce ancora tutto alla volontà di Dio, mettendo maggiormente l'accento sulla Sua misericordia piuttosto che sul carattere implacabile della Sua giustizia. Non sappiamo cosa avrebbe pensato Dante se avesse potuto leggere queste considerazioni, ma è lecito affermare che il documento citato resta nel solco della dottrina e non ne mette in discussione i principi fondamentali (caso mai, li interpreta in maniera meno restrittiva), per cui l'attuale posizione della Chiesa non è certo in contrasto con quella espressa da Dante il quale, non dimentichiamolo, si rifaceva anch'egli strettamente alle affermazioni dei teologi a lui coevi. (Foto: © F. Pozzebom / Wikimedia Commons)


Note e passi controversi

Non è chiaro cosa sia il truono che risveglia Dante all'inizio del Canto (vv. 1-3): probabilmente si tratta di un evento prodigioso, come il terremoto e la luce rossastra che ne hanno provocato lo svenimento alla fine del Canto III.
Il v. 30 riecheggia 
Aen., VI, 306-307: matres atque viri... pueri innuptaeque puellae («donne e uomini, fanciulli e ragazze ancora non maritate»), riferito alle anime che si affollano in riva all'Acheronte.
Le parole di Virgilio ai vv. 33-36 anticipano la spiegazione dell'aquila nel 
Cielo di GiovePar.XIX, 103-105: A questo regno / non salì mai chi non credette 'n Cristo, / né pria né poi ch'el si chiavasse al legno.
Al v. 45 l'agg. 
sospesi  è lo stesso usato da Virgilio in II, 52.
Il v. 69 (
ch'emisperio di tenebre vincia) assume diverso significato a seconda che il sogg. sia che oppure emisperio, e che il verbo voglia dire «vinceva» o «attorniava»: nel primo caso si legge una luce che vinceva un emisfero di tenebre, nel secondo che un emisfero di tenebre attorniava, sempre riferendosi alla luce che proviene dal castello.
La 
spada  che Omero tiene in mano (v. 86) è un riferimento al fatto che fu poeta guerresco (specie nell'Iliade), ma è anche una connotazione della sua superiorità sugli altri tre.
Il v. 95 (
di quel segnor de l'altissimo canto) può riferirsi a Omero o Virgilio, anche se quanto detto prima da Dante fa pensare al poeta greco, definito sire degli altri tre.
La descrizione del castello degli «spiriti magni» si rifà in gran parte a quella dei Campi Elisi dell'
Eneide (VI, 638 ss.), specie nel particolare dei poeti che si pongono su una specie di altura da cui possono vedere tutti gli spiriti (si tratta di una sorta di locus amoenus e la scena è simile anche a Purg.VII, 70 ss., quando Sordello indica a Dante e Virgilio le anime dei principi negligenti nella valletta). Le sette mura e le sette porte del castello sono state oggetto delle più svariate ipotesi interpretative (le sette arti liberali, le sette virtù, le sette ripartizioni della filosofia...), ma nessuna sembra in grado di prevalere sulle altre.
Nei vv. 130-135 è indicata la netta superiorità di Aristotele rispetto a tutti gli altri filosofi, dal momento che lo Stagirita siede più in alto e 
tutti onor li fanno (ciò è dovuto all'enorme importanza del suo pensiero nel tomismo e nella teologia cristiana dei secc. XII-XIII).
Il v. 136 allude alla teoria atomistica di Democrito (Dante si rifà probabilmente a san 
Tommaso d'Aquino).
Dioscoride è detto 
buono accoglitor del quale (v. 139) in quanto autore di una classificazione delle qualità medicinali delle piante.
Al v. 141 Dante cita 
Seneca morale, ma non è affatto certo che volesse distinguerlo da Seneca tragico, visto che probabilmente sapeva bene trattarsi dello stesso autore.