INFERNO, CANTO V

 

Testo

Così discesi del cerchio primaio 
giù nel secondo, che men loco cinghia, 
e tanto più dolor, che punge a guaio.                             3

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: 
essamina le colpe ne l’intrata; 
giudica e manda secondo ch’avvinghia.                        6

Dico che quando l’anima mal nata 
li vien dinanzi, tutta si confessa; 
e quel conoscitor de le peccata                                       9

vede qual loco d’inferno è da essa; 
cignesi con la coda tante volte 
quantunque gradi vuol che giù sia messa.                  12

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte; 
vanno a vicenda ciascuna al giudizio; 
dicono e odono, e poi son giù volte.                              15

«O tu che vieni al doloroso ospizio», 
disse Minòs a me quando mi vide, 
lasciando l’atto di cotanto offizio,                                    18

«guarda com’entri e di cui tu ti fide; 
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!». 
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?                         21

Non impedir lo suo fatale andare: 
vuolsi così colà dove si puote 
ciò che si vuole, e più non dimandare».                       24

Or incomincian le dolenti note 
a farmisi sentire; or son venuto 
là dove molto pianto mi percuote.                                  27

Io venni in loco d’ogne luce muto, 
che mugghia come fa mar per tempesta, 
se da contrari venti è combattuto.                                  30

La bufera infernal, che mai non resta, 
mena li spirti con la sua rapina; 
voltando e percotendo li molesta.                                  33

Quando giungon davanti a la ruina, 
quivi le strida, il compianto, il lamento; 
bestemmian quivi la virtù divina.                                    36

Intesi ch’a così fatto tormento 
enno dannati i peccator carnali, 
che la ragion sommettono al talento.                            39

E come li stornei ne portan l’ali 
nel freddo tempo, a schiera larga e piena, 
così quel fiato li spiriti mali;                                             42

di qua, di là, di giù, di sù li mena; 
nulla speranza li conforta mai, 
non che di posa, ma di minor pena.                              45

E come i gru van cantando lor lai, 
faccendo in aere di sé lunga riga, 
così vid’io venir, traendo guai,                                         48

ombre portate da la detta briga; 
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle 
genti che l’aura nera sì gastiga?».                                 51

«La prima di color di cui novelle 
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta, 
«fu imperadrice di molte favelle.                                     54

A vizio di lussuria fu sì rotta, 
che libito fé licito in sua legge, 
per tòrre il biasmo in che era condotta.                         57

Ell’è Semiramìs, di cui si legge 
che succedette a Nino e fu sua sposa: 
tenne la terra che ’l Soldan corregge.                            60

L’altra è colei che s’ancise amorosa, 
e ruppe fede al cener di Sicheo; 
poi è Cleopatràs lussuriosa.                                           63

Elena vedi, per cui tanto reo 
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille, 
che con amore al fine combatteo.                                  66

Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille 
ombre mostrommi e nominommi a dito, 
ch’amor di nostra vita dipartille.                                      69

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito 
nomar le donne antiche e ’ cavalieri, 
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.                            72

I’ cominciai: «Poeta, volontieri 
parlerei a quei due che ’nsieme vanno, 
e paion sì al vento esser leggeri».                                 75

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno 
più presso a noi; e tu allor li priega 
per quello amor che i mena, ed ei verranno».             78

Sì tosto come il vento a noi li piega, 
mossi la voce: «O anime affannate, 
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».                            81

Quali colombe dal disio chiamate 
con l’ali alzate e ferme al dolce nido 
vegnon per l’aere dal voler portate;                                84

cotali uscir de la schiera ov’è Dido, 
a noi venendo per l’aere maligno, 
sì forte fu l’affettuoso grido.                                              87

«O animal grazioso e benigno 
che visitando vai per l’aere perso 
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,                  90

se fosse amico il re de l’universo, 
noi pregheremmo lui de la tua pace, 
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.                        93

Di quel che udire e che parlar vi piace, 
noi udiremo e parleremo a voi, 
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.                             96

Siede la terra dove nata fui 
su la marina dove ’l Po discende 
per aver pace co’ seguaci sui.                                        99

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende 
prese costui de la bella persona 
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.                 102

Amor, ch’a nullo amato amar perdona, 
mi prese del costui piacer sì forte, 
che, come vedi, ancor non m’abbandona.                  10

 


Amor condusse noi ad una morte: 
Caina attende chi a vita ci spense». 
Queste parole da lor ci fuor porte.                                108

Quand’io intesi quell’anime offense, 
china’ il viso e tanto il tenni basso, 
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».                    111

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, 
quanti dolci pensier, quanto disio 
menò costoro al doloroso passo!».                              114

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, 
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri 
a lagrimar mi fanno tristo e pio.                                     117

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, 
a che e come concedette Amore 
che conosceste i dubbiosi disiri?».                              120

E quella a me: «Nessun maggior dolore 
che ricordarsi del tempo felice 
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.                            123

Ma s’a conoscer la prima radice 
del nostro amor tu hai cotanto affetto, 
dirò come colui che piange e dice.                               126

Noi leggiavamo un giorno per diletto 
di Lancialotto come amor lo strinse; 
soli eravamo e sanza alcun sospetto.                         129

 

Per più fiate li occhi ci sospinse 
quella lettura, e scolorocci il viso; 
ma solo un punto fu quel che ci vinse.                         132

Quando leggemmo il disiato riso 
esser basciato da cotanto amante, 
questi, che mai da me non fia diviso,                           135

la bocca mi basciò tutto tremante. 
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: 
quel giorno più non vi leggemmo avante».                 138

Mentre che l’uno spirto questo disse, 
l’altro piangea; sì che di pietade 
io venni men così com’io morisse. 

E caddi come corpo morto cade.                                  142

 

Parafrasi

Così discesi dal I Cerchio al II, che cinge uno spazio minore, ma contiene tanto maggior dolore che spinge a lamentarsi.

Minosse sta orribilmente sulla soglia e ringhia: esamina le colpe dei dannati che si presentano; li giudica e li destina a seconda di come attorcigli la coda.

Dico che quando l'anima dannata si presenta davanti a lui, rende piena confessione; e quel conoscitore dei peccati stabilisce in quale zona dell'Inferno debba andare; si cinge con la coda tante volte quanti sono i Cerchi che il dannato deve discendere.


Davanti a lui ci sono sempre moltissime anime; una dopo l'altra vanno a sottoporsi al suo giudizio; parlano e ascoltano, poi sono precipitati giù.

 

E Minosse, quando mi vide, mi disse questo, tralasciando un momento il suo alto compito: «O tu che vieni in questo luogo di dolore, bada al modo in cui entri e a chi ti stai affidando! Non ti inganni la facilità dell'ingresso!» E Virgilio rispose: «Perché continui a gridare?


Non impedire il suo viaggio voluto da Dio: si vuole così in Cielo, dove è possibile tutto ciò che si vuole, quindi non dire altro».

Ora inizio a sentire le note dolenti; ora sono giunto in un luogo dove molta sofferenza mi colpisce.


Io giunsi in un luogo totalmente buio, che risuona come il mare in tempesta quando soffiano venti contrari.


La bufera infernale, che è incessante, trascina rapinosamente le anime; li tormenta sbattendoli e percuotendoli.

Quando arrivano davanti alla rovina, allora emettono urla, pianti, lamenti; qui bestemmiano Dio.


Capii che a questa pena sono dannati i peccatori di lussuria, che sottomettono la ragione al piacere.


E come d'inverno gli stornelli sono trasportati in volo dalle loro ali, formando una larga schiera, così quel vento trasporta gli spiriti malvagi;

li trascina qua e là, su e giù; non hanno alcuna speranza che li conforti, né di riposo né di una diminuzione della pena.

E come le gru emettono i loro lamenti, formando in cielo una lunga riga, così vidi venire sospirando delle anime, trasportate da quella tempesta; allora dissi: «Maestro, chi sono quelle anime castigate così dalla oscura bufera?»



«La prima di coloro di cui vuoi avere notizie,» mi rispose allora Virgilio, «fu imperatrice di molti popoli.


 

Fu così dedita al vizio di lussuria, che rese lecito nella sua legge tutto ciò che le piaceva, per eliminare la condanna morale che le spettava.

Ella è Semiramide, di cui si legge che fu sposa di Nino al quale poi succedette: governò la terra che ora è governata dal Soldano.

L'altra è colei che si suicidò per amore (Didone), e non tenne fede alla memoria del marito Sicheo; poi c'è la lussuriosa Cleopatra.

Vedi Elena, per cui si combatté una lunga e sanguinosa guerra, e vedi il grande Achille, che combatté a scopi amorosi.

 

Vedi Paride, Tristano»; e mi indicò col dito più di mille anime, che morirono a causa dell'amore.


Dopo aver sentito il mio maestro nominare le donne antiche e i cavalieri, fui preso da turbamento e quasi mi smarrii.

Cominciai: «Poeta, parlerei volentieri a quei due che volano insieme e sembrano essere trasportati tanto lievemente dal vento».

Mi rispose: «Aspetta quando saranno più vicini a noi: allora pregali in nome di quell'amore che li trascina ed essi verranno».

Non appena il vento li portò verso di noi, iniziai a parlare: «O anime affannate, venite a parlarci se Dio ve lo consente!»

Come le colombe chiamate dal desiderio volano verso il dolce nido (per accoppiarsi), con le ali ferme e alzate, portate dal desiderio, allo stesso modo i due uscirono dalla schiera di Didone, venendo a noi attraverso l'aria infernale, tanto forte e affettuoso fu il mio richiamo.



«O creatura cortese e benevola, che nell'aria oscura visiti noi che tingemmo il mondo di sangue, se il re dell'universo ci fosse amico lo pregheremmo perché ti dia pace, visto che mostri pietà del nostro terribile male.



 

Noi vi ascolteremo e vi parleremo di ciò che volete, mentre il vento tace come fa in questo punto.


La terra dove sono nata (Ravenna) sorge alla foce del Po, dove il fiume si getta in mare per trovare pace coi suoi affluenti.

L'amore, che si attacca subito al cuore nobile, prese costui per il bel corpo che mi fu tolto, e il modo ancora mi danneggia.

L'amore, che non consente a nessuno che sia amato di non ricambiare, mi prese per la bellezza di costui con tale forza che, come vedi, non mi abbandona neppure adesso.

L'amore ci condusse alla stessa morte: Caina attende colui che ci uccise». Essi ci dissero queste parole.


Quando io sentii quelle anime offese, chinai lo sguardo e lo tenni basso così a lungo che alla fine Virgilio mi disse: «Cosa pensi?»

Quando risposi, dissi: «Ahimè, quanti dolci pensieri, quanto desiderio portarono questi due al passo doloroso!»


Poi mi rivolsi a loro e parlai dicendo: «Francesca, le tue pene mi rendono triste e mi spingono a piangere.

Ma dimmi: al tempo della vostra relazione, in che modo e in quali circostanze Amore vi concesse di conoscere i dubbiosi desideri?»

E lei mi disse: «Non c'è nessun dolore più grande che ricordare il tempo felice quando si è miseri; e questo lo sa bene il tuo maestro.

Ma se tu hai tanto desiderio di conoscere l'origine del nostro amore, allora farò come colui che piange e parla al tempo stesso.

Un giorno noi leggevamo per svago il libro che narra di Lancillotto e di come amò Ginevra; eravamo soli e non sospettavamo quel che sarebbe successo.

 

Più volte quella lettura ci spinse a cercarci con gli occhi e ci fece impallidire; ma fu solo un punto a sopraffarci.


Quando leggemmo che la bocca desiderata di Ginevra fu baciata da un simile amante, costui, che non sarà mai diviso da me, mi baciò la bocca tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse; quel giorno non leggemmo altre pagine».



Mentre uno spirito diceva questo, l'altro piangeva, così che io venni meno a causa del turbamento, proprio come se morissi.

 

E caddi come un corpo privo di vita.

 

Inferno, Canto V

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Amos Cassioli, Paolo e Francesca (1870)

Stavvi Minòs, orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia...



Poscia ch'i' ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito...


"... Siede la terra dove nata fui
su la marina dove il Po discende,
per aver pace co' seguaci sui..."


Argomento del Canto

Ingresso nel II Cerchio. Incontro con Minosse. La pena dei lussuriosi; i morti violentemente per amore. Incontro con Paolo e Francesca.
È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.

Ingresso nel II Cerchio. Minosse (1-24)

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G. Doré, I lussuriosi

Usciti dal Limbo, Dante e Virgilio entrano nel II Cerchio, meno ampio del precedente ma contenente molto più dolore. Sulla soglia trovano Minosse, che ringhia con aspetto animalesco: è il giudice infernale, che ascolta le confessioni delle anime dannate e indica loro in quale Cerchio siano destinate, attorcigliando intorno al corpo la lunghissima coda tante volte quanti sono i Cerchi che il dannato deve discendere. Non appena vede che Dante è vivo, lo apostrofa con durezza e lo ammonisce a non fidarsi di Virgilio, poiché uscire dall'Inferno non è così facile come entrare. Virgilio lo zittisce ricordandogli che il viaggio di Dante è voluto da Dio.

I lussuriosi (25-72)
Superato Minosse, Dante si ritrova in un luogo buio, dove soffia incessante una terribile bufera che trascina i dannati e li sbatte da un lato all'altro del Cerchio. Quando questi spiriti giungono davanti a una «rovina», emettono grida e lamenti e bestemmiano Dio. Dante capisce immediatamente che si tratta dei lussuriosi, i quali volano per l'aria formando una larga schiera simile agli stornelli quando volano in cielo. 
Dante vede poi un'altra schiera di anime, che volano formando una lunga linea simile a delle gru in volo. Chiede spiegazioni a Virgilio e il poeta latino indica al discepolo i nomi di alcuni dannati, che sono tutti 
lussuriosi morti violentemente: tra questi ci sono Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena (moglie di Menelao), Achille, Paride, Tristano, in compagnia di più di mille altre anime. Dopo aver sentito tutti questi nomi, Dante è colpito da profonda angoscia e per poco non si smarrisce.


Incontro con Paolo e Francesca (73-108)

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G. Doré, Paolo e Francesca

Dante nota che due di queste anime volano accoppiate e manifesta il desiderio di parlare con loro. Virgilio acconsente e invita Dante a chiamarle, cosa che il poeta fa con un appello carico di passione. I due spiriti si staccano dalla schiera di anime e volano verso di lui, come due colombe che vanno verso il nido: sono un uomo e una donna, e quest'ultima si rivolge a Dante ringraziandolo per la pietà che dimostra verso di loro. Poi si presenta, dicendo di essere nata a Ravenna e di essere stata legata in vita da un amore indissolubile con l'uomo che ancora le sta accando nella morte; furono entrambi assassinati e la Caina, la zona del IX Cerchio dove sono puniti i traditori dei parenti, attende il loro uccisore.

Il racconto di Francesca. Dante sviene (109-142)
A questo punto Dante resta turbato e per alcuni momenti resta in silenzio, gli occhi bassi. Virgilio gli chiede a cosa pensi e Dante risponde di essere colpito dal desiderio amoroso che condusse i due dannati alla perdizione. Poi parla a 
Francesca, chiamandola per nome, e chiedendole in quali circostanze sia iniziata la loro relazione adulterina.
Francesca risponde dapprima che è doloroso ricordare del tempo felice quando si è miseri, ma se Dante vuole sapere l'origine del loro amore allora glielo racconterà. La donna narra che un giorno lei e 
Paololeggevano per divertimento un libro, che parlava di Lancillotto e della regina Ginevra. Più volte la lettura li aveva indotti a cercarsi con lo sguardo e li aveva fatti impallidire. Quando lessero il punto in cui era descritto il bacio dei due amanti, anch'essi si baciarono e interruppero la lettura del libro, che fece da mezzano della loro relazione amorosa. Mentre Francesca parla, Paolo resta in silenzio e piange; Dante è sopraffatto dal turbamento e sviene.


Interpretazione complessiva

Il Canto V è il primo dell'Inferno che ci mostra la pena di una categoria di dannati e Francesca è il primo peccatore a dialogare con Dante: troviamo anche una figura demoniaca, Minosse, che qui rappresenta il giudice dei dannati ed è ridotto a una bizzarra parodia della giustizia divina, essendo descritto come un essere mostruoso e animalesco, con una lunga coda che avvolge intorno a sé per indicare ai dannati il luogo infernale cui sono destinati (Guido da Montefeltro aggiungerà il particolare del dosso duro, cfr. Inf., XXVII, 125). Non sappiamo da dove Dante abbia tratto questa curiosa trasformazione, di cui non c'è traccia nei testi classici cui può essersi ispirato, ma è certo che Minosse qui si limita ad essere esecutore della volontà divina, una sorta di strumento che agisce senza la profonda dignità che aveva in Virgilio o negli altri poeti antichi; è probabilmente anche il custode del II Cerchio, anche se nulla autorizza a collegarlo al peccato di lussuria in quanto nel mito classico egli era descritto piuttosto come re saggio e giusto.
I lussuriosi sono trascinati da una bufera incessante, che simboleggia la forza della passione sessuale cui essi non seppero opporsi in vita (Dante li definisce 
peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento). Molto probabilmente tra essi si distingue un'altra schiera, costituita dai lussuriosi morti violentemente, tra cui oltre ai due protagonisti del Canto ci sono vari personaggi del mito e della letteratura, come Didone, Achille, Tristano. Dante intende svolgere un discorso intorno alla letteratura amorosa, per condannarla in quanto fonte potenziale di peccato e pericolosa per quei lettori che potrebbero essere indotti a mettere in pratica i comportamenti descritti nei libri. Non a caso i lussuriosi nominati da Virgilio appartengono quasi tutti alla sfera letteraria o mitologica e Dante li definisce donne antiche e' cavalieri, con un riferimento preciso alla letteratura francese del ciclo arturiano (cui appartengono sia Tristano sia Lancillotto e Ginevra, citati dopo da Francesca). Dante stesso non ha bisogno di spiegazioni per capire che in questo Cerchio sono puniti i lussuriosi e ciò per il fatto che il poeta era stato avido lettore e produttore di letteratura amorosa, quindi si sente coinvolto in prima persona nel loro peccato (di qui il turbamento angoscioso che prova dall'inizio dell'episodio): la sua intenzione è condannare la letteratura che celebra l'amore sensuale e non spiritualizzato, quindi ritrattare parte della sua precedente produzione poetica, rappresentata dalle Petrose e forse anche dallo Stilnovo. Francesca è un personaggio significativo a riguardo, perché il caso suo e di Paolo era un episodio di cronaca che doveva essere ben presente ai lettori contemporanei. La vicenda, di cui non c'è comunque traccia nei cronisti del tempo, era quella di un adulterio tra Francesca da Polenta, figlia del signore di Ravenna, e il cognato Paolo Malatesta, fratello di Gianciotto che la donna aveva sposato in un matrimonio combinato per riappacificare le due famiglie. Gianciotto aveva scoperto la relazione e aveva ucciso entrambi.
Dante non intende affatto risarcire i due amanti clandestini della loro morte, né giustificare in alcun modo il loro peccato, ma piuttosto mettere in guardia tutti i lettori dai rischi insiti nella letteratura di argomento amoroso. Francesca, infatti, è una donna colta, esperta di letteratura: cita indirettamente 
Guinizelli e lo stesso Dante, dei quali riprende alcuni versi nella famosa anafora Amor... amor... amor, nonché le leggi del De amore di A. Cappellano, testo notissimo nel Medioevo e base teorica della lirica provenzale. Il suo amore con Paolo è nato per una reciproca attrazione fisica e l'occasione è venuta proprio dalla lettura di un libro, il romanzo cortese di Lancillotto e Ginevra (che Dante sicuramente non conosceva direttamente, ma attraverso qualche volgarizzamento tardo). La loro colpa non è tanto di essersi innamorati, ma di aver messo in pratica il comportamento peccaminoso dei due personaggi letterari; hanno scambiato la letteratura con la vita e ciò ha causato la loro irrevocabile dannazione.
La 
pietà provata da Dante verso di loro non è dunque una generica compassione né la riabilitazione del loro amore clandestino (errata è dunque l'interpretazione dei critici romantici, come De Sanctis), ma è il turbamento angoscioso di uno scrittore che prende coscienza della pericolosità della poesia amorosa da lui prodotta in passato. Non è del resto un caso che una lussuriosa sia il primo dannato descritto da Dante, mentre gli ultimi penitenti del Purgatorio (Canto XXVI) saranno Guido Guinizelli e Arnaut Daniel, condannati proprio in quanto poeti amorosi.

Note e passi controversi

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G. Doré, Minosse

Minosse (vv. 4 ss.) è descritto da Dante con attributi animaleschi, in modo molto diverso quindi da quello virgiliano nel libro VI dell'Eneide (non è chiaro a quali fonti faccia riferimento). Virgilio lo zittisce con la stessa formula già usata con Caronte inInf., III, 95-96.
Al v. 20 Minosse sembra citare 
Matth., VII, 13: spatiosa via est, quae ducit ad perditionem («la via che conduce alla perdizione è assai larga»).
Non è chiaro cosa sia la 
ruina citata al v. 34, di fronte alla quale i lussuriosi bestemmiano Dio: si è pensato a una frana prodotta dal terremoto il giorno della morte di Cristo, simbolo per i dannati della giustizia divina.
Le similitudini con gli uccelli ai vv. 40, 46, 82-84 (stornelli, gru, colombe) si spiegano col fatto che essi erano spesso usati come immagini nella poesia amorosa. I 
lai (v. 46)  sono le strida emesse dalle gru, ma il riferimento è anche ai Lais, genere di poesia franco-provenzale e ai lamenti amorosi citati dai trovatori occitanici. Le colombe appartenevano al corteo di Venere, dea dell'amore, e vengono mostrate mentre vanno al dolce nido, dove si accoppieranno. 
La 
terra che 'l Soldan corregge (v. 60) è Babilonia in Egitto, ma qui Dante la confonde probabilmente con la Babilonia capitale del regno assiro.
Al v. 90 
sanguigno  indica il colore rosso del sangue, come perso (v. 89) indica un colore scuro misto di porpora e nero (Francesca intende dire che lei e Paolo sono morti di morte violenta).
Il 
re de l'universo citato da Francesca (v. 91) è probabilmente Dio, ma alcuni commentatori hanno ipotizzato che potrebbe essere il dio Amore, cui la donna era devota in vita.
La rima ai vv. 95, 97, 99 (
voi / fui / sui ) è siciliana (al v. 95 alcuni mss. leggono vui). 
Al v. 96 
ci tace  vuol dire «qui tace» (ci  è avv. di luogo), ma alcuni mss. leggono si tace.
Il v. 100 (
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende) riprende due versi di Guinizelli e Dante, ovvero Foco d'amore in gentil cor s'aprende (dalla canzone Al cor gentil rempaira sempre amore) e Amore e 'l cor gentil sono una cosa (Vita Nuova, XX). Invece il v. 103 (Amor, ch'a nullo amato amar perdona) riprende un concetto espresso nel De amore, di A. Cappellano.
I vv. 121-123 sono una citazione di un passo di 
Boezio (De consolatione philosophiae, II, 4), ma non è certo che il dottore di Dante sia Virgilio, poiché Francesca potrebbe alludere proprio a Boezio.
Nel romanzo cortese citato da Francesca (vv. 133 ss.) è in realtà la regina Ginevra a baciare Lancillotto, nell'ambito del rituale dell'omaggio amoroso che ricalcava l'investitura cavalleresca: può darsi che Dante avesse letto un tardo volgarizzamento del testo francese in cui la situazione era rovesciata o descritta in modo ambiguo. 
Galeotto  è Galehaut, il siniscalco di Ginevra che faceva da mallevadore ai due amanti del romanzo.
Il verso finale del Canto (142) è assai simile a quello che chiudeva il 
III (v. 136: e caddi come l'uom cui sonno piglia).