Inferno, Canto VI

Testo

Al tornar de la mente, che si chiuse 
dinanzi a la pietà d’i due cognati, 
che di trestizia tutto mi confuse,                                       3

 

 


novi tormenti e novi tormentati 
mi veggio intorno, come ch’io mi mova 
e ch’io mi volga, e come che io guati.                             6

Io sono al terzo cerchio, de la piova 
etterna, maladetta, fredda e greve; 
regola e qualità mai non l’è nova.                                    9

Grandine grossa, acqua tinta e neve 
per l’aere tenebroso si riversa; 
pute la terra che questo riceve.                                       12

Cerbero, fiera crudele e diversa, 
con tre gole caninamente latra 
sovra la gente che quivi è sommersa.                          15

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, 
e ’l ventre largo, e unghiate le mani; 
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.                             18

Urlar li fa la pioggia come cani; 
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo; 
volgonsi spesso i miseri profani.                                   21

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, 
le bocche aperse e mostrocci le sanne; 
non avea membro che tenesse fermo.                         24

E ’l duca mio distese le sue spanne, 
prese la terra, e con piene le pugna 
la gittò dentro a le bramose canne.                               27

Qual è quel cane ch’abbaiando agogna, 
e si racqueta poi che ’l pasto morde, 
ché solo a divorarlo intende e pugna,                           30

cotai si fecer quelle facce lorde 
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona 
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.                            33

Noi passavam su per l’ombre che adona 
la greve pioggia, e ponavam le piante 
sovra lor vanità che par persona.                                   36

Elle giacean per terra tutte quante, 
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto 
ch’ella ci vide passarsi davante.                                     39

«O tu che se’ per questo ’nferno tratto», 
mi disse, «riconoscimi, se sai: 
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».                                 42

E io a lui: «L’angoscia che tu hai 
forse ti tira fuor de la mia mente, 
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.                                 45

Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente 
loco se’ messo e hai sì fatta pena, 
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».               48

Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena 
d’invidia sì che già trabocca il sacco, 
seco mi tenne in la vita serena.                                      51

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: 
per la dannosa colpa de la gola, 
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.                              54

E io anima trista non son sola, 
ché tutte queste a simil pena stanno 
per simil colpa». E più non fé parola.                            57

Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno 
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita; 
ma dimmi, se tu sai, a che verranno                             60

li cittadin de la città partita; 
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione 
per che l’ha tanta discordia assalita».                          63

E quelli a me: «Dopo lunga tencione 
verranno al sangue, e la parte selvaggia 
caccerà l’altra con molta offensione.                             66

Poi appresso convien che questa caggia 
infra tre soli, e che l’altra sormonti 
con la forza di tal che testé piaggia.                               69

 


Alte terrà lungo tempo le fronti, 
tenendo l’altra sotto gravi pesi, 
come che di ciò pianga o che n’aonti.                           72

Giusti son due, e non vi sono intesi; 
superbia, invidia e avarizia sono 
le tre faville c’hanno i cuori accesi».                              75

Qui puose fine al lagrimabil suono. 
E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni, 
e che di più parlar mi facci dono.                                    78

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, 
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca 
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,                           81

 


dimmi ove sono e fa ch’io li conosca; 
ché gran disio mi stringe di savere 
se ’l ciel li addolcia, o lo ’nferno li attosca».                 84

E quelli: «Ei son tra l’anime più nere: 
diverse colpe giù li grava al fondo: 
se tanto scendi, là i potrai vedere.                                  87

Ma quando tu sarai nel dolce mondo, 
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi: 
più non ti dico e più non ti rispondo».                            90 

Li diritti occhi torse allora in biechi; 
guardommi un poco, e poi chinò la testa: 
cadde con essa a par de li altri ciechi.                          93

E ’l duca disse a me: «Più non si desta 
di qua dal suon de l’angelica tromba, 
quando verrà la nimica podesta:                                    96

ciascun rivederà la trista tomba, 
ripiglierà sua carne e sua figura, 
udirà quel ch’in etterno rimbomba».                              99

Sì trapassammo per sozza mistura 
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti, 
toccando un poco la vita futura;                                     102

per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti 
crescerann’ei dopo la gran sentenza, 
o fier minori, o saran sì cocenti?».                                105

Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza, 
che vuol, quanto la cosa è più perfetta, 
più senta il bene, e così la doglienza.                          108

Tutto che questa gente maladetta 
in vera perfezion già mai non vada, 
di là più che di qua essere aspetta».                           111

Noi aggirammo a tondo quella strada, 
parlando più assai ch’i’ non ridico; 
venimmo al punto dove si digrada: 

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.                          115


Parafrasi

Quando mi tornarono i sensi, sopraffatti davanti all'angoscia dei due cognati (Paolo e Francesca) che mi riempì di tristezza,

 

 

 

mi vedo intorno nuove pene e nuovi dannati, in qualunque modo mi muova, e mi guardi intorno.

 

 

Sono nel III Cerchio, dove cade una pioggia eterna, maledetta, fredda e molesta; il suo ritmo e la sua qualità non mutano mai. 

Nell'aria oscura si riversano una grandine spessa, acqua sporca e neve; la terra che ne è bagnata manda un odore sgradevole.

Cerbero, belva crudele e mostruosa, latra come un cane con tre teste sopra i dannati che sono sdraiati nel fango.


Ha gli occhi rossi, il muso sporco e unto, il ventre gonfio e le zampe con artigli; graffia, scuoia e fa a pezzi i dannati.

La pioggia li fa urlare come cani; cercano di proteggersi l'un l'altro coi fianchi; i miseri peccatori si voltano spesso.


Quando Cerbero, il mostro orribile, ci vide, spalancò le fauci e ci mostrò le zanne; non aveva parte del corpo che non tremasse.

E il mio maestro aprì le mani, prese un po' di terra e la gettò coi pugni pieni nelle fauci fameliche del mostro.


Come quel cane che abbaia ed è affamato, e poi si placa quando addenta il boccone, poiché non ha altro pensiero che divorarlo,

 

allo stesso modo si placarono le facce sozze del demonio Cerbero, che rintrona a tal punto le anime che vorrebbero essere sorde.

Noi camminavano sulle anime che la pioggia pesante abbatte, e poggiavamo i piedi sui loro corpi inconsistenti, dall'aspetto umano.

Esse erano tutte sdraiate per terra, tranne una che si mise a sedere non appena ci vide passare davanti.


Mi disse: «O tu che sei guidato attraverso l'Inferno, riconoscimi, se ne sei in grado: tu nascesti prima che io morissi».

Gli risposi: «L'angoscia che dimostri ti rende irriconoscibile, proprio come se non ti avessi mai visto.


Ma dimmi chi sei tu, che sei posto in un luogo così doloroso e subisci una pena tale che, forse, altre sono più gravi, ma nessuna è altrettanto spiacevole».

E lui rispose: «La tua città, che è tanto piena di invidia che ormai ha raggiunto il limite, mi ospitò nella vita terrena.

Voi fiorentini mi chiamaste Ciacco: a causa della colpa della gola, come vedi, sono fiaccato dalla pioggia.


E io non sono l'unico dannato qui, poiché queste altre anime sono soggette alla stessa pena per lo stesso peccato». Poi non disse più nulla.

Io risposi: «Ciacco, il tuo affanno mi angoscia al punto che mi viene da piangere; ma dimmi, se lo sai, quale sarà il destino

 

degli abitanti della città divisa (Firenze); se qualcuno di loro è giusto; e dimmi la causa della discordia che l'ha assalita».

E quello a me: «Dopo una lunga contesa verranno allo scontro violento, e la parte del contado (i Bianchi) caccerà l'altra (i Neri) con gravi danni.

Poi è destino che i Bianchi cadano prima di tre anni, e che l'altra parte prenda il sopravvento con l'aiuto di un uomo (Bonifacio VIII) che, ora, si tiene in bilico fra le due fazioni.

I Neri resteranno a lungo al potere, opprimendo i Bianchi con pensanti condanne, nonostante le loro lamentele.


I fiorentini giusti sono solo due (sono pochissimi) e nessuno li ascolta; superbia, invidia e avarizia sono le tre scintille che hanno acceso i cuori».

Qui smise di parlare con tono lamentoso. E io gli dissi: «Voglio che tu mi spieghi altre cose e che parli ancora con me.

Dimmi dove sono Farinata Degli Uberti, e il Tegghiaio, che furono così degni cittadini, Iacopo Rusticucci, Arrigo, Mosca dei Lamberti e tutti gli altri che si adoperarono con l'ingegno per far bene:

 

fa' che io conosca il loro destino, poiché ho gran desiderio di sapere se il Cielo li addolcisce o l'Inferno li avvelena».

E lui: «Essi sono tra le anime più malvagie: varie colpe li collocano nel fondo dell'Inferno e se scenderai fin laggiù, li potrai vedere.

Ma quando sarai tornato nel dolce mondo terreno, ti prego di ricordarmi ai vivi: non ti dico altro e non ti rispondo più».

Allora Ciacco strabuzzò gli occhi, mi guardò un poco e poi chinò la testa: ricadde insieme alle altre anime dannate.

E il maestro mi disse: «Non si rialzerà più, fino al suono della tromba angelica, quando verrà la potestà nemica (Cristo giudicante):

ciascuno di essi rivedrà la triste tomba, si rivestirà del proprio corpo mortale, ascolterà la sentenza finale».


Così oltrepassammo la sozza mescolanza delle anime e della pioggia, a passi lenti, parlando un poco della vita ultraterrena;

allora dissi: «Maestro, queste pene aumenteranno dopo la sentenza finale, o diminuiranno, o resteranno immutate?»

E lui a me: «Torna alla tua scienza (la Fisica aristotelica), secondo la quale, quanto più una creatura è perfetta, tanto più sentirà il piacere e il dolore.

Anche se questi dannati maledetti non saranno mai perfetti, tuttavia dopo il Giudizio raggiungeranno la completezza del loro essere».

Noi percorremmo il Cerchio in tondo, dicendo molte altre cose che non riferisco; venimmo al punto in cui si scende nel IV Cerchio

 

e qui trovammo Pluto, il gran nemico.


 

TEMPO venerdì santo 8 aprile, verso la mezzanotte LUOGO Una pioggia incessante di acqua sporca, neve e grandine cade sulla terra che esala fetore. PECCATORI Sono i golosi che hanno ceduto in misura smodata al desiderio è all'uso del cibo, seguendo istinti più bestiali che umani. PERSONAGGI Dante, Virgilio, Ciacco e Cerbero. CONTRAPPASSO Riversi a terra e immersi nel fango, sono flagellati dalla pioggia " eterna,maledetta, fredda e greve "; su di essi infierisce il demonio Cerbero, graffiandoli scuoiandoli e squartandoli. Per contrappasso, loro che in vita hanno ceduto in modo bestiale al peccato della gola ora sono schiacciati a terra e ingozzati di disgustosa e maleodorante fanghiglia.

 

SOMMARIO

vv. 1-33. IL GIRO E DEI GOLOSI E IL MOSTRO CERBERO Dante riprende i sensi, e ai suoi occhi si presenta un nuovo spettacolo di sofferenze e tormenti: sotto una pioggia, che cade incessantemente mista a tempesta, confitti nel fango, sono i peccatori schiavi del vizio della gola. A custodia del girone c'è un demonio deforme con tre teste: Cerbero, che assorda i dannati con i suoi latrati. Scorgendo i due poeti, esibisce un grottesco spettacolo di inutile furore, finché Virgilio, con una manciata di terra, riesce a distoglierlo e a calmare le brame bestiali e a entrare nel girone.

vv.34-75. CIACCO: L'INVETTIVA POLITICA E LA PROFEZIA I due pellegrini iniziano ad attraversare il cerchio dei golosi; solo uno di essi riesce a sollevarsi, ma il suo viso è disfatto dalla sofferenza e lordato dal fango cosicché Dante non è in grado di riconoscerlo: si tratta di Ciacco, fiorentino, pubblicamente noto per il vizio della gola.il dolore di Dante verso il concittadino è grande, ma più grande ancora il desiderio di conoscere la sorte di Firenze.le parole di Ciacco dipingono a fosche tinte il futuro della città: le parti si succederanno al governo fino a quando i Neri riusciranno a prevalere e per i Bianchi e Dante non resterà che l'esilio e la rovina. Le sane tradizioni antiche hanno ceduto il passo alla dilagare del vizio e in particolare all'avarizia, alla superbia e all'invidia.

vv.76-115. IL CONGEDO DA CIACCO E IL DESTINO FINALE DELLE ANIME Ciacco interrompe il discorso, ma Dante vuole ancora conoscere il destino di alcuni noti personaggi che si distinsero nell'impegno a favore della città. La risposta aggrava la tristezza del poeta, poiché per Farinata, Mosca, Tegghiaio, Jacopo Rusticucci, Arrigo, i meriti politici non sono valsi a guadagnare loro la salvezza e anch'essi sono all'Inferno. Ciacco chiede di essere ricordato nel dolce mondo e si immerge nel lurido fango con gli altri compagni di eterna sventura. Virgilio ricorda a Dante che Ciacco si ridesterà nuovamente nel giorno del Giudizio universale per sentire la definitiva condanna del Cristo, giudice terribile dei dannati. Risponde poi alla domanda sulla condizione ultima delle anime quando saranno riunite al corpo: per loro dopo il giudizio il supplizio sarà ancora maggiore. I due poeti infine giungono al luogo da cui si può discendere al girone successivo custodito da Pluto.


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G. Stradano, Il III Cerchio (1587)

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gola caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa...




"...Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco..."



E 'l duca a me: "Più non si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta..."


Argomento del Canto

Ingresso nel III Cerchio. Apparizione di Cerbero. Pena dei golosi. Incontro con Ciacco e sua profezia sul destino politico della città di Firenze. Ciacco indica come dannati alcuni fiorentini illustri, tra cui Farinata Degli UbertiTegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci e Mosca dei Lamberti. Apparizione di Pluto.
È la notte di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.

Incontro coi golosi. Cerbero (1-33)

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Cerbero (min. ferrarese, XV sec.)

Dante si risveglia dopo lo svenimento al termine del colloquio con Paolo e Francesca e si accorge di essere arrivato nel III Cerchio, dov'è tormentata una nuova schiera di dannati. Una pioggia eterna, fredda, fastidiosa cade incessante nel Cerchio, mista ad acqua sporca e neve; forma al suolo una disgustosa fanghiglia, da cui si leva un puzzo insopportabile. 
I golosi sono sdraiati nel fango e 
Cerbero latra orribilmente sopra di essi con le sue tre fauci. Ha gliocchi rossi, il muso sporco, il ventre gonfio e le zampe artigliate; graffia le anime facendole a brandelli e rintronandole coi suoi latrati. I dannati urlano come cani per la pioggia, voltandosi spesso sui fianchi nel vano tentativo di ripararsi l'un l'altro. Quando Cerbero vede i due poeti gli si avventa contro, mostrando i denti, ma Virgilio raccoglie una manciata di terra e gliela getta nelle tre gole. Il mostro sembra placarsi, proprio come un cane affamato quando qualcuno gli getta un boccone.


Incontro con Ciacco (34-57)

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G. Doré, I golosi

Dante e Virgilio proseguono e passano letteralmente sopra le anime, che essendo immateriali non oppongono ostacolo. Tutte giacciono al suolo, ma una di esse si leva improvvisamente a sedere e si rivolge a Dante, chiedendogli se lo riconosce, dal momento che il poeta è nato prima che lui morisse. Dante risponde che il suo aspetto è talmente stravolto da renderlo irriconoscibile, quindi gli domanda il suo nome, affermando che la pena sua e degli altri golosi è certo la più spiacevole dell'Inferno, se non forse la più grave. 
Il dannato risponde dichiarando anzittutto di essere stato cittadino di 
Firenze, la città che è piena di invidia. Il suo nome è Ciacco ed è condannato fra i golosi, che affollano in gran numero il Cerchio. Detto ciò, rimane in silenzio.


Le tre domande di Dante a Ciacco su Firenze (58-75)

A questo punto Dante ribatte dicendosi pronto a piangere per l'angoscia provocata dalla pena di Ciacco e gli pone tre domande riguardanti la loro comune patria, Firenze: Dante vuol sapere quale sarà l'esito delle lotte politiche, se vi sono cittadini giusti, quali sono le ragioni delle discordie intestine.
Ciacco risponde alla prima domanda con una oscura profezia, dicendo che dopo una lunga contesa i due partiti (Guelfi Bianchi e Neri) verranno allo scontro fisico (la cosiddetta zuffa di Calendimaggio del 1300) e i Bianchi cacceranno i Neri con grave danno. Prima che passino tre anni, però, i Neri avranno il sopravvento grazie all'aiuto di un personaggio che si tiene in bilico tra i due partiti (
Bonifacio VIII). I Neri conserveranno il potere per lungo tempo, infliggendo gravi pene alla parte avversa (condanne ed esili). 
La risposta alla seconda domanda è che i giusti a Firenze sono solo in due, ma nessuno li ascolta. Alla terza domanda Ciacco risponde che superbia, invidia ed avarizia sono le tre scintille che hanno acceso le lotte politiche.

Domanda di Dante su alcuni fiorentini illustri (76-93)

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Il III Cerchio, ms. della British Library

Dopo che Ciacco ha cessato di parlare lamentosamente, Dante gli domanda ancora se sa quale sia il destino ultraterreno di alcuni celebri fiorentini, tra cui Farinata Degli Uberti,Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, Iacopo Rusticucci, un Arrigo (di cui non conosciamo l'identità), Mosca dei Lamberti. Dante ha gran desiderio di sapere se essi sono all'Inferno o in Paradiso e Ciacco risponde prontamente che essi sono tra le anime peggiori e si trovano tutti nel più profondo dell'Inferno, dove Dante stesso potrà vederli se scenderà fin laggiù. 
Ciacco conclude il suo discorso pregando Dante di ricordarlo ai vivi una volta tornato sulla Terra, quindi non aggiunge un'altra parola. Il dannato strabuzza gli occhi, guarda per qualche istante il poeta e poi china la testa, ricadendo nel fango insieme agli altri golosi.


Condizione dei dannati dopo il Giudizio Universale. Pluto (94-115)

Virgilio prende la parola per spiegare a Dante che Ciacco non si solleverà più fino al giorno del Giudizio Universale, quando udirà il suono della tromba angelica. Allora tutti i trapassati si rivestiranno del corpo mortale, ascoltando la sentenza finale che fisserà in eterno il loro destino ultraterreno. Mentre i due poeti attraversano la fanghiglia tra le anime, Dante chiede a Virgilio se i tormenti dei dannati aumenteranno dopo il Giudizio, oppure saranno attenuati o resteranno uguali.
Virgilio risponde a Dante invitandolo a pensare alla Fisica di 
Aristotele, in base alla quale quanto più una cosa è perfetta, tanto più è in grado di percepire il dolore e il piacere. I dannati non saranno mai perfetti, tuttavia è logico supporre che dopo la sentenza finale raggiungeranno la pienezza del proprio essere (essendosi riappropriati del loro corpo), quindi implicitamente afferma che le loro pene aumenteranno.
I due poeti aggirano a tondo il Cerchio, parlando di altri argomenti che Dante non riferisce. Quando giungono al punto in cui si scende dal III al 
IV Cerchio, trovano il gran nemico  Pluto.

Intepretazione complessiva

Il Canto VI di ciascuna Cantica è di argomento politico, secondo un climax  ascendente che va da Firenze, all'Italia (Purg., VI), all'Impero  (Par., VI): qui il discorso politico è dedicato alla città di Dante, di cui vengono analizzate le lotte interne e le discordie attraverso il personaggio di Ciacco, uno dei golosi che scontano la loro pena nel III Cerchio in cui Dante si sveglia dopo lo svenimento alla fine del precedente. Questi dannati sono colpiti da una pioggia incessante, costretti a voltolarsi in un fango maleodorante che contrasta con la prelibatezza e i profumi dei cibi di cui furono ghiotti in vita, il che rende piuttosto evidente il contrappasso; la pena è accresciuta da Cerbero, mostro che li rintrona col suo latrato e li graffia... ed iscoia ed isquatra, proprio come se fossero cibi da cucinare (e lo stesso mostro è una raffigurazione grottesca del peccato di ghiottoneria, con le sue tre gole, la barba unta e atra, il ventre gonfio, la fame rabbiosa che placa mangiando la terra). Il cane a tre teste è tratto dalla mitologia classica e, al pari dei già visti Caronte e Minosse, rappresenta l'ennesimo caso di divinità infera demonizzata dal pensiero cristiano, anch'esso con la funzione allegorica di impedimentum morale alla discesa di Dante all'Inferno. Infatti il mostro ringhia e mostra i denti ai due viaggiatori, tuttavia è neutralizzato da Virgilio che gli getta nelle tre gole una manciata di terra, gesto che ricorda quello della Sibilla nel libro VI dell'Eneide (anche se in quel caso la sacerdotessa lanciava a Cerbero una focaccia intrisa di erbe soporifere) e che rimanda alla natura demoniaca del mostro, che infatti è stato considerato un'anticipazione di Lucifero che avrà anch'egli tre facce e sarà come il cane trifauce una bizzarra parodia della Trinità.
Il protagonista del Canto è poi Ciacco, un fiorentino vissuto nel Duecento di cui poco si sa a parte quel che ne dicono Dante e 
Boccaccio in una novella del Decameron (IX, 8), in cui compare anche Filippo Argenti che troveremo due Canti più avanti tra gli iracondi. È il dannato ad apostrofare Dante e a chiedergli se lui lo riconosca, cosa impossibile dato il suo aspetto stravolto (non sarà l'unico caso in cui la pena rende pressoché irriconoscibili i dannati o i penitenti del Purgatorio), quindi Dante rivolge al dannato tre domande sul destino politico di Firenze, profittando del fatto che i dannati possono antivedere il futuro sia pure con le limitazioni che verranno precisate in seguito da Farinata. Il poeta vuole sapere infatti cosa avverrà nella città paritita, divisa in opposte fazioni, se vi sono cittadini giusti e qual è stata la causa delle discordie che lacerano Firenze: Ciacco risponde profetizzando la vittoria dei Guelfi Neri nel 1301-1302, che causerà l'esilio di Dante (è la prima di una lunga serie di profezie su questo argomento), dichiarando che a Firenze i cittadini che onorano la giustizia sono ben pochi e infine ricordando che le cause delle divisioni politiche sono superbia, invidia ed avarizia, quindi le tre disposizioni peccaminose che sono all'origine del disordine morale dell'Italia del tempo (l'avarizia era già simboleggiata dalla lupa, la superbia dal leone; l'invidia è il peccato che spinse Lucifero a ribellarsi a Dio e che aveva fatto uscire la lupa dall'Inferno, secondo quanto detto in Inf.I, 111). Col discorso di Ciacco, Dante intende stigmatizzare le divisioni interne di Firenze, che tante ingiustizie e dolori causeranno e che saranno frutto della avidità di denaro:l'avarizia dei Fiorentini sarà duramente criticata anche in altri celebri passi del poema, specie nel discorso sul maladetto fiore di Folchetto di Marsiglia (Par., IX, 127-142) in cui la città verrà addirittura definita come il prodotto di Lucifero, mentre l'invidia di cui secondo Ciacco è piena Firenze è anche quella provata dai concittadini di Dante verso il poeta per la sua condotta politica, che causerà il suo esilio in seguito ai fatti del 1301-1302 (discorso simile verrà fatto da Brunetto Latini nel Canto XV dell'Inferno). Sempre in quest'ottica va letta l'altra domanda sul destino escatologico dei fiorentini illustri (quelli ch'a ben far puoser li 'ngegni), vissuti nella prima metà del XIII sec. e protagonisti di una Firenze ideale, la stessa vagheggiata dall'avo Cacciaguida nel Canto XV del Paradiso: se ebbero meriti politici, non altrettanto può dirsi di quelli morali, visto che Ciacco preannuncia la loro dannazione (Dante incontrerà Farinata tra gli eresiarchi del VI Cerchio, Tegghiaio e il Rusticucci tra i sodomiti del VII, Mosca tra i seminatori di discordie della IX Bolgia dell'VIII Cerchio).
L'ultima parte del Canto riguarda il destino dei dannati dopo il Giudizio Universale, spiegato da Virgilio in base ai principi della Fisica di Aristotele e in seguito alla sua affermazione secondo cui Ciacco, ricaduto nel fango al termine del suo discorso con Dante, non si rialzerà più fino 
all'angelica tromba (allora le anime risorte si rivestiranno dei loro corpi mortali, secondo un punto qualificante della dottrina che sarà toccato anche altrove da Dante: cfr. Par.XIV, 34-60). Secondo Virgilio il maggior grado di perfezione di una creatura ne accresce la sensibilità al piacere e al dolore, quindi, anche se i dannati non saranno mai perfetti, dopo che si saranno riappropriati del corpo il loro essere sarà più completo, quindi le loro pene accresceranno. L'accenno al Giudizio finale rimanda allo scontro tra Cristo e l'Anticristo, che dirimerà ogni divisione terrena e ristabilirà la giustizia in eterno: il primo è definito qui nimica podesta, il secondo è implicitamente evocato attraverso Pluto, il gran nemico (ovvero il demonio) che appare alla fine del canto e si ricollega in parte a Cerbero, definito demonio gran vermo, lo stesso attributo di Lucifero.

Note e passi controversi

due cognati  (v. 2) sono Paolo e Francesca, i lussuriosi incontrati da Dante nel Canto V; ascoltando la loro storia il poeta era svenuto e all'inizio di questo Canto riprende i sensi.
Il v. 14 presenta una cesura in tmesi, tra 
canina- -mente (l'avverbio di modo è spezzato nei suoi elementi etimologici).
Al v. 21 
miseri profani è probabilmente una dittologia sinonimica che sta per «miseri moralmente e materialmente» (altri intendono l'espressione come «dannati»).
Il v. 36 allude al fatto che le anime hanno corpi inconsistenti, quindi Dante e Virgilio possono porre su di loro le piante dei piedi come se non esistessero. Tavolta Dante è coerente con tale principio, in altri casi invece descrive le anime come corpi solidi (ciò per esigenze poetiche di maggior realismo).
Il v. 42 contiene il bisticcio verbale 
disfatto / fatto, di gusto tipicamente guittoniano.
Al v. 61 Dante definisce Firenze 
la città partita in quanto divisa in fazioni politiche.
Al v. 65 la 
parte selvaggia indica i Bianchi, detti così perché i Cerchi che ne erano a capo venivano dal contado. Il fatto di sangue citato da Ciacco è la cosiddetta zuffa di Calendimaggio (1° maggio 1300) tra sostenitori dei Cerchi e dei Donati, in cui fu coinvolto anche l'amico di Dante, Guido Cavalcanti, che venne poi esiliato con provvedimento firmato dal poeta che ricopriva la carica di priore.
Il v. 69 indica certamente Bonifacio VIII, che nel 1301-1302 fingeva di far da paciere tra le due fazioni e in realtà parteggiava segretamente per i Neri; alcuni hanno pensato a 
Carlo di Valois, le cui armi rovesciarono i Bianchi nel 1301.
Il v. 73 (
giusti son due) vuol dire probabilmente che i giusti, a Firenze, sono pochissimi, ma non sono mancate interpretazioni più puntuali (i due giusti sarebbero Dante e Dino Compagni, Dante e Guido Cavalcanti, ecc.). Alcuni commentatori hanno inteso giusto come sinonimo didiritto, quindi i due giusti sarebbero il diritto naturale e quello codificato con la legge, ma è ipotesi poco probabile.
Al v. 79 
Tegghiaio  è bisillabo per via del trittongo -aio.
L'
Arrigo di cui parla Ciacco al v. 80 è un personaggio non identificato, che non viene più nominato fra i dannati.
Al v. 84 
attosca significa propriamente «avvelena», da tosco, «veleno» (cfr. XIII, 6, stecchi con tosco).
Al v. 96 
la nimica podesta  è Cristo giudicante, così definito in quanto nemico dei dannati.
I vv. 97-99 alludono alla credenza cristiana per cui, il Giorno del Giudizio, le anime risorte andranno nella valle di 
Iosafat a riappropriarsi dei loro corpi mortali (cfr. XIII, 103-108).
La spiegazione di Virgilio ai vv. 106-111 si rifà strettamente al commento di san 
Tommaso d'Aquino al De anima  di Aristotele, che cita quasi alla lettera: quanto anima est perfectior, tanto exercet plures perfectas operationes et diversas («quanto più l'anima è perfetta, tanto più numerose e perfette e diverse sono le operazioni che esercita»).